RUBRICA – TESTIMONI DEL PENSARE E RIPROGETTARE: DIETRICH BONHOEFFER

RUBRICA – TESTIMONI DEL PENSARE E RIPROGETTARE: DIETRICH BONHOEFFER

Dietrich Bonhoeffer nacque a Breslavia il 4 febbraio 1906. Breslavia è una città della Slesia, allora situata in Germania, che alla fine della Seconda Guerra Mondiale tornò ad essere parte della Polonia con il nome di Wroclaw, dopo quattro secoli di dominio prima austriaco, poi prussiano e infine nazista.

Fu ucciso con la tipica crudeltà nazista nel campo di concentramento di Flossenbürg, il 9 aprile 1945.

È stato un pastore protestante di enorme spessore religioso, etico e relazionale.

È stato un teologo raffinato che ha scritto pagine meravigliose sul rapporto tra la fede e la vita, tra la fede e i travagli dell’umanità.

È stato un convinto partigiano che ha messo al servizio dell’umanità la sua stessa vita per la liberazione dal nazismo e da Hitler.

Ci sono storie che lasciano il segno nel cammino di credenti e non credenti. Storie che vanno conosciute e possibilmente fatte proprie. Storie che continuano ad ispirare il pensare, dire e vivere Dio dentro i drammi del nostro tempo.

Negli anni di impegno alla FUCI e al MoVI, la storia di Dietrich Bonhoeffer ha accompagnato anche la mia giovane ricerca di vivere al servizio dei migliori cammini di fede e di prossimità, intesi come possibile liberazione interiore, sociale e politica.

È una storia bella da conoscere tuttora e da raccontare soprattutto alle nuove generazioni!

Dietrich Bonhoeffer sin da ragazzo avvertiva dentro il proprio cuore una vocazione religiosa verso un Dio che con l’incarnazione di Cristo vive la condizione umana nelle sue gioie e nei suoi dolori.

La sua famiglia coltivava verso di lui ambizioni professionali di alto lignaggio. La mamma comunque lo spingeva a sani valori, il papà medico e professore di neurologia e psichiatria lo orientava alle scienze. Il giovane Dietrich pensava ad altro: al “totalmente altro” del Dio che scavava nei meandri profondi della sua coscienza, al “totalmente prossimo” del popolo di Dio che lo faceva sentire fratello al suo servizio.

Scelse così la vita religiosa per diventare pastore nella Chiesa Protestante. Iniziò un duro cammino di formazione e di preparazione ad un dialogo con Dio il più maturo possibile e di incontro con i fratelli e le sorelle il più responsabile possibile.

Studiò nella prestigiosa Università di Tubinga tanto cara ad Hegel, poi in quella di Berlino. Si aprì alla cultura moderna e al senso critico delle trasformazioni sociali e dello stesso pensiero religioso. Grazie al dialogo giovanile con intellettuali come il pacifista francese Jean Lasserre (1908-1983), orientò il suo universo culturale verso la coesistenza dei popoli. Apprese molto dai teologici più moderni, come il teologo protestante svizzero Karl Barth (1886-1968), e si laureò nel 1930, con una tesi sulla Chiesa, dal titolo “Sanctorum communio”, diventando pastore luterano e ottenendo a soli 24 anni l’abilitazione per la docenza universitaria. Si “vaccinò” sin da subito dal contagio di forme integraliste dell’annuncio di fede.

La sua solida formazione lo aiutò a non farsi pertanto avvelenare dalla ostilità agli accordi di Versailles (alla fine della prima guerra mondiale, il 28 giugno del 1919), che fece da carburante nazionalista all’ascesa di Hitler, e non si accodò al successo dilagante del nazismo. Ne comprese per tempo il suo carattere deleterio: negazione violenta dei più elementari diritti umani, propensione cieca alla guerra, cancellazione di qualunque libertà e vita democratica, un antisemitismo fuori da qualunque logica umana e religiosa. Ma comprese pure la sua irriducibile contraddizione a qualunque richiamo di fede e di etica condivisa. Nella sua lettera a Gandhi, per il quale nutriva una profonda ammirazione, confidò le preoccupazioni per la possibile guerra in Europa, sostenendo il bisogno di “un movimento cristiano per la pace, vivo e ispirato a principi spirituali”.

Lasciò indignato la Germania per andare ad insegnare a Londra, ma non seppe resistere al richiamo dell’impegno religioso e civile nella sua terra. Ritornò a Berlino e diede una mano fondamentale alla organizzazione della Chiesa Protestante Confessante, che prese le nette distanze della Chiesa ufficiale Luterana per via del suo essere supina al dominio nazista. Fu di nuovo costretto ad andare via, stavolta negli Stati Uniti, a New York, ma rimase pochissimi giorni: capì che non poteva esimersi dalla scelta di andare sino in fondo nella lotta al nazismo.

Diventò uno dei principali protagonisti della lotta al nazismo operanti all’interno della Germania, agendo concretamente per resistere e per eliminare lo stesso Hitler, unendosi per questo obiettivo al gruppo di Resistenza sorto attorno all’ammiraglio Wilhelm Canaris (1887-1945).

Il 5 Aprile del 1943 fu arrestato dalla Gestapo e subì a testa alta e senza mai perdere la fede il suo vero e proprio calvario nelle terribili carceri tedesche, dove riuscì a vivere con dignità e a scrivere pagine memorabili della sua concezione cristiana. Dopo un breve passaggio nel campo di concentramento di Buchenwald, fu trasferito nel lager di Flossenbürg presso Monaco, dove con un processo sommario, fu condannato a morte, impiccato e appeso nudo ad un palo il 9 aprile 1945, a soli 39 anni, insieme all’ammiraglio Canaris, per espresso ordine di Hitler, poco tempo prima della caduta del nazismo.

Dietrich Bonhoeffer operò con l’esempio per annunciare una fede incarnata e liberante, scrisse molte opere ancora ricche di ispirazione teologica ed etica come “Resistenza e Resa”.

È stato un testimone credibile in un momento oscuro per indicare una possibile Via di Speranza. La indica anche a noi, immersi in una fase storica che rischia ancora una volta di diventare piuttosto buia, ma che è anche desiderosa di cieli e terre nuove.


TESTIMONI DEL PENSARE E RIPROGETTARE: INDICE


PADRE PINO PUGLISI: UN SORRISO LIBERANTE, UN ESEMPIO ANCORA VIVO, UN SANTO DEL NOSTRO TEMPO

Padre Puglisi non era il classico prete che in quegli anni puntava il dito contro le mafie con libri, interviste e convegni. Aveva scelto invece un approccio che investiva tutto sulla formazione delle coscienze e su una spiritualità in grado di diffondere un amore di liberazione. Il suo corpo, la sua fede e la sua intelligenza comunicavano e aggregavano.

L’ho conosciuto quando noi giovani dirigenti della Fuci della Diocesi di Palermo dovemmo individuare il nostro nuovo assistente spirituale. Tenevamo moltissimo alla nostra laicità, autonomia e responsabilità. Avevamo bisogno pertanto non di un prete protagonista, ma di un sacerdote autentico, in grado di aiutarci in un profondo cammino di fede. Bastò poco per convincerci che Padre Puglisi era la persona adatta. Lui si dichiarò subito disponibile e la scelta non poté essere migliore.

Si avviò così un percorso che ha intersecato due generazioni di fucini: la prima, dopo la Fuci, maturò un impegno nel Volontariato, soprattutto nel MoVI; la seconda lo seguì quando egli decise di assumere la rischiosa responsabilità di Parroco di San Gaetano nel quartiere di Brancaccio.

La mafia, nel frattempo, teneva sotto il tacco i quartieri popolari, colludeva con i potenti e colpiva chi, soprattutto nelle istituzioni e nella società, si ribellava al giogo mafioso. La guerra di mafia imperversava e la reazione della società civile cresceva. Nella Chiesa il cammino arrancava, almeno quello sotto il profilo educativo, sociale e culturale.

Avevamo scelto di agire contro la mafia curando in modo particolare questi profili, che ci erano propri e che erano consoni anche al modo di pensare e di agire di Padre Puglisi. Avevamo promosso infatti un impegno che si allargava in tutto il Sud e sul piano nazionale: lo chiamavamo “socializzare il territorio” nella lotta alle mafie.

Avevamo pure preso contatto con la Commissione Antimafia di allora per presentare questo tipo di approccio. La mafia purtroppo arrivò prima, ma il nostro cammino non si è fermato. La storia di Padre Puglisi ha raggiunto milioni di giovani e continua a seminare idee e progettualità.

A trent’anni dalla sua morte, sento il bisogno di dedicargli un ricordo, attraverso l’esperienza che ho potuto vivere direttamente con lui.

Giuseppe Lumia

Siamo a ben trent’anni dall’indimenticabile sorriso con cui Padre Pino Puglisi affrontò gli esecutori della sua condanna a morte. Un sorriso disarmante, che ha messo in crisi perfino consumati killer mafiosi del calibro di Salvatore Di Grigoli e Gaspare Spatuzza.

Un sorriso che sapeva accogliere e promuovere amore e liberazione.

Un sorriso non arrendevole e accomodante, tipico dei sempliciotti, ma tutt’altro, sempre consapevole e intelligente, tipico degli uomini impegnati e pieni di fede.

Innanzitutto, mi sento di fare un’affermazione che non deve apparire scontata e paradossale: Padre Pino Puglisi credeva in Dio e nel Prossimo. Sì, quando ci incontrava nelle riunioni di formazione, durante gli esercizi spirituali o nei dialoghi a tu per tu, nelle celebrazioni religiose, le sue parole erano autentiche, espressione coerente della sua profonda fede: una fede solida come la roccia, aperta senza paure al dialogo, pronta alla lotta alle varie ingiustizie, ispiratrice di percorsi di cambiamento interiori e sociali, sempre in ricerca condivisa di cieli e terre nuove.

È stato un “figlio autentico del popolo”. È nato nel 1937, lo stesso giorno che fu ucciso, il 15 Settembre, nel quartiere umile di Brancaccio, da una famiglia onesta e semplice, il papà calzolaio, la mamma sarta. Brancaccio è un quartiere popolare di Palermo carico di contraddizioni e di potenzialità. Padre Puglisi sapeva infatti quanto erano radicate e pericolose le contraddizioni, così pure come era alla portata educativa e sociale stimolarne le potenzialità.

Non era il tipo che si tirava indietro e quindi lui stesso avanzò la richiesta, nel Settembre del 1990, di ricoprire il ruolo vacante e difficile di Parroco di San Gaetano. Sapeva a quali rischi poteva andare incontro, ma avvertiva dentro la consapevolezza che l’amore verso Dio e il Prossimo deve incarnarsi ed esprimersi in relazionesimo e fraternariato, diremmo oggi. Era un amore liberante da quelle catene che opprimevano la Comunità di Brancaccio sia attraverso la violenza e l’arroganza del potere mafioso, sia tramite quel mellifluo modo di concepire e sostenere finanziariamente i riti religiosi, soprattutto per la festa di San Gaetano. Padre Puglisi rifiutò soldi e aiuti dai boss, addirittura quelli della potente e stragista famiglia mafiosa dei Graviano.

Iniziò un’attività di promozione sociale sistematica sui servizi da richiedere al Comune e prese posizioni durissime contro la mafia che nel frattempo consumava stragi e strangolava diritti e dignità, soprattutto nei quartieri popolari.

Padre Pino Puglisi aveva spalle piccole fisicamente ma irrobustite dall’esperienza drammatica maturata per diversi anni, dal 1970 al 1978, a Godrano, un Comune del Corleonese, un paesino laborioso appollaiato proprio all’ingresso del meraviglioso Bosco della Ficuzza, dove insiste uno straordinario ecosistema nel quale è incastonata la famosa Casina reale. Era stato Parroco durante una sanguinosa guerra di mafia che provocò diverse vittime tra quelli che avversavano e quelli che sostenevano l’ascesa al trono di cosa nostra dei Corleonesi, come Liggio, Riina, Provenzano e Bagarella.

Nonostante le difficoltà di quel contesto sociale, era riuscito a far crescere una sana generazione libera culturalmente dal pensare e agire mafioso. Uno di quei ragazzi di Godrano diventerà un sacerdote eccellente e addirittura un valido vescovo.

Don Pino si cimentò inoltre nel dialogo ecumenico, tanto da far dialogare la Comunità Cattolica con quella Evangelica, altrettanto numerosa e molto amata, autorevole e ben radicata nel più vasto territorio e capace di esprimere classe dirigente.

Il suo approccio educativo era disarmante come il suo sorriso. Funzionava, eccome! Anche a Brancaccio era riuscito ad attrarre in Parrocchia diversi ragazzi, facendo loro vivere la cultura della cittadinanza, la prossimità sociale intrisa di valori costituzionali, una fede non condizionata da pregiudizi e chiusure mentali. Aveva promosso il Centro “Padre Nostro”, aperto al quartiere e in sintonia con la “scelta degli ultimi” e della “promozione umana” voluta dalla Chiesa del Concilio, che sentiva sua in tutto e per tutto.

La sua esperienza si era forgiata pure in anni e anni di lavoro come professore di scuola, con diversi incarichi parrocchiali in borgate e quartieri periferici di Palermo, in Seminario, nel Centro Vocazionale, con l’Azione Cattolica e con i giovani universitari della Fuci. Questo lungo percorso aveva fatto nascere in lui quel piglio educativo al tempo stesso molto moderno e ben strutturato nell’approccio di fede. Ecco perché la sua fede e la sua pastorale educativa erano in netto contrasto con i condizionamenti di quel pensare e agire imposti dalla mafia.

Non è un caso che due giovani del quartiere di Brancaccio abbiano messo in gioco la propria vita per testimoniare al Processo contro i feroci boss di Brancaccio che avevano assassinato Padre Puglisi. Uno di essi, Giuseppe, è oggi un Testimone di Giustizia che agisce con rigore e preparazione legislativa al sostegno di tutti gli altri Testimoni umiliati e offesi da un approccio burocratico delle Istituzioni rispetto alla difficilissima ma esemplare condizione di chi cambia radicalmente vita, mette a rischio tutto, abbandona il proprio lavoro e territorio, è costretto spesso a modificare le proprie generalità, perdendo i legami con le famiglie di origine, pur di fare il proprio dovere di cittadini nei pericolosi processi di mafia.

La mafia non tollerava un sacerdote che non si limitava a puntare il dito intervenendo mediaticamente, ma preferiva agire costantemente e quotidianamente sul piano della liberazione culturale, sociale e religiosa. I boss avvertivano che in questo modo erano minati alle fondamenta il loro ruolo nel controllo totalizzante del territorio e il loro prestigio nel decidere tutto, compresa la vita dei momenti salienti della Parrocchia.

Il 15 Settembre del 1993, giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno, alle 20,40, davanti casa sua, nel piazzale Anita Garibaldi, sempre a Brancaccio, un commando di killer mafiosi lo raggiunse. Oltre a Di Grigoli e Spatuzza, il gruppo era composto da Luigi Giacalone e Cosimo Lo Nigro. Spatuzza lo chiamò per nome e gli intimò: “Questa è una rapina”. Padre Puglisi ebbe solo il tempo di voltarsi, sorridere e dire: “Me l’aspettavo”. Di Grigoli gli sparò a bruciapelo alla nuca.

Sono passati trent’anni e tuttora rimangono esemplari e vive le sue idee, il suo amore per il prossimo, il suo metodo educativo, la sua disponibilità sociale, la sua scelta degli ultimi, la sua voglia di cambiamento della vita del quartiere, di Palermo e della Sicilia.

Padre Pino Puglisi è da alcuni anni un Beato. I motivi sono diversi e tutti validi. Rimane inedito e importante, da non trascurare o minimizzare, il motivo della sua santità “in odium fidei” per avere in sostanza promosso una fede liberante, anche dalle mafie.

Ci mancano moltissimo il suo sorriso disarmante, la sua consapevolezza culturale, la sua attività educativa, la sua fede e il suo impegno per la liberazione dalle mafie. Nello stesso tempo dobbiamo avere la certezza interiore, sociale e politica che la sua ispirazione produce cambiamento: basta accoglierla!


ARTURO PAOLI, L’APOSTOLO DEI PICCOLI E POVERI. CONOSCERE LA SUA STORIA CI AIUTA A RIPENSARE E RIPROGETTARE IL CAMMINO DELL’UMANITÀ

Ho avuto anch’io la gioia di conoscere Arturo Paoli, una persona speciale: un uomo di speranza e di fede, di quella fede che ama la terra e si apre senza paura al dialogo, all’accoglienza e alla liberazione.

La vita di Arturo Paoli è da conoscere. È una storia ancora esemplare! Aveva alle spalle un cammino straordinario, che lo ha reso, tappa dopo tappa, punto di riferimento per migliaia di cristiani oltre che di tantissimi uomini e donne non credenti ma di buona volontà.

Arturo Paoli nacque in Toscana, a Lucca, nel 1912. Si imbatté presto nella violenza fascista. Anche da giovane sacerdote, nella Casa degli Oblati, si adoperò, nonostante sia stato arrestato e rischiando più volte la vita, per dare rifugio e portare in salvo perseguitati ed ebrei dalla furia nazifascista. Sarà riconosciuto infatti “Giusto tra le Nazioni” nel 1999, a Brasilia, dallo Stato di Israele; nel 2006 riceverà la medaglia d’oro al valore civile dalla Presidenza della Repubblica Italiana.

Dopo la Seconda guerra mondiale, nel 1949, venne chiamato a Roma dall’allora Sostituto di Stato Vaticano, Giovan Battista Montini, a svolgere il ruolo di vice Assistente Spirituale della Gioventù italiana di Azione Cattolica, la capillare realtà giovanile della GIAC.

Con l’avvento della democrazia, l’Azione cattolica si interrogava sul modello della propria presenza nella società. Si delinearono sostanzialmente due percorsi: quello di Luigi Gedda e di Pio XII, che spingevano l’Azione cattolica all’impegno collaterale con la Democrazia cristiana, e quella di Carlo Carretto e Mario Rossi, che chiedevano una “scelta religiosa” non come fuga dal mondo ma come un libero impegno di condivisione con gli ultimi e di formazione delle coscienze.

Arturo Paoli optò per la seconda linea, puntando sulla dimensione spirituale e sociale e sposò le idee culturali e teologiche dei due leader di straordinaria personalità, Carlo Carretto, sino al 1952, e Mario Rossi, sino al 1954.

Di questa travagliata e sofferta storia mi ha parlato più volte, durante i nostri viaggi per le vie del Paese per promuovere il ruolo moderno del Volontariato, un suo grande amico, Luciano Tavazza, che allora svolgeva il ruolo di delegato nazionale del Movimento Studenti della GIAC.

Dopo che Carretto e Rossi vennero spinti alle dimissioni e si allontanarono dalla loro amata e per loro insostituibile realtà dell’Azione Cattolica, Arturo Paoli non si scoraggiò e diede inizio a un’altra fase della sua vita: il pellegrinaggio per le polverose strade del mondo del disagio e dell’emarginazione.

Cominciò a fare la spola tra l’Europa e il Sud America, divenendo guida spirituale dei marinai nei mercantili, del popolo delle favelas, degli ultimi e degli emarginati dell’America Latina. In Brasile, Argentina e Bolivia fondò delle comunità e partecipò alla stupenda stagione della Teologia della Liberazione, in chiave non ideologica e aggressiva, ma di cambiamento interiore e collettivo.

Paoli incrociò di nuovo il cammino di Carlo Carretto e collaborò con lui alla fondazione della Comunità di Spello dei Piccoli fratelli, ispirata al cammino di Charles de Foucault, che divenne così un luogo di preghiera e sobrietà per una spiritualità profonda, di stimolo e formazione per la promozione di una fede aperta e attenta alla domanda di giustizia e alla promozione dei diritti umani. Spello divenne una sorgente di impegno per migliaia di giovani e adulti, che si sono accostati ad una dimensione autentica della fede grazie a questa innovativa esperienza.

Lo stesso Movimento del Volontariato Italiano, guidato proprio da Luciano Tavazza, negli anni 70-80 scelse Spello per dar vita alle Settimane del volontariato estivo, in modo da forgiare l’identità di migliaia di volontari in cammino verso un modello di volontariato moderno, alternativo a quello riparatore e assistenziale. Un volontariato proiettato a rimuovere le cause dell’emarginazione, secondo una visione laico-religiosa dell’articolo 3 della nostra stupenda Costituzione.

Ricordo ancora i miei dialoghi così intensi, tra gli ulivi delle verdi colline di Spello, con Arturo Paoli, i suoi occhi fervidi di fede, il suo cuore ricco e privo di pregiudizi, la sua mente colta e in grado di spaziare dalle grandi questioni mondiali ai problemi sociali più concreti e drammatici, la lettura dei suoi libri. Aveva una grande personalità, era un vero leader, dotato però di quel carisma che si fa lievito per la crescita degli altri e per la società.

Rimane viva la memoria di una figura straordinaria in grado di stimolare la ricerca di una spiritualità profonda e incarnata, di un “noi” socialmente radicato nei territori e con un pensiero arioso, capace di uno sguardo e di una progettualità globale.

Per chi volesse conoscere meglio la vita, il pensiero e la spiritualità di Arturo Paoli, segnalo una pagina FB a lui dedicata: PROSEGUI SU FACEBOOK


UN PRETE E UN EDUCATORE CHE CON IL SUO IMPEGNO HA ANCORA MOLTO DA DIRE ALLA CHIESA, ALLA SCUOLA E ALLA POLITICA

Il 27 Maggio del 2023 ricorre il centenario della nascita di un prete che con le sue scelte ha aperto orizzonti nuovi e impensabili: don Lorenzo Milani

Don Milani ha vissuto la sua breve seppur intensa vita religiosa in Toscana, in una zona piccola e aspra, marginale e di montagna, nella allora sconosciuta località di Barbiana. Ma con le sue opere e il suo pensiero ha saputo andare lontano e parlare al mondo: interrogando la coscienza di intere generazioni, orientando la ricerca pedagogica di educatori e animatori sociali, stimolando verso l’impegno innovativo nella Chiesa e nella stessa Politica.

Un “profeta di prossimità”, diremmo oggi.

La sua storia è travagliata, piena di ostacoli, tutta in salita. Ricca tuttavia di speranza e di risultati di enorme portata storica.

È cresciuto in una famiglia di grande cultura e apertura: il papà era un chimico con la passione per la letteratura, molto innovativo nell’attività agricola; il nonno paterno era un archeologo e un numismatico. Anche la mamma non scherzava per livello culturale: allieva di James Joyce e studiosa di Sigmund Freud, cugina di Edoardo Weiss, proveniva da una famiglia di ebrei boemi trasferitisi nella mitteleuropea Trieste. Pensate un po’: entrambi i genitori di don Lorenzo Milani si dichiaravano agnostici e anticlericali. Eppure la fede l’ha irradiato per tutta la vita e mai le sue profonde spinte innovatrici nella Chiesa lo portarono a propositi di rottura, anzi era molto protettivo nei confronti della Comunità Ecclesiale, rispetto a chi pensava ad un suo superamento.

Ha studiato da giovane a Milano, al famoso Liceo Giovanni Berchet, a dire il vero senza eccellere particolarmente. C’è stato anche un momento di prima affermazione del primato della coscienza nella sua gioventù, quando dopo il diploma non volle iscriversi all’Università, come invece i suoi genitori si aspettavano, perché preferì dedicarsi all’arte della pittura. A maggio del 1941, si inserì nel prestigioso studio del pittore tedesco Hans-Joachim Staude, a Firenze, mentre a settembre si iscrisse al corso di pittura dell’altrettanto prestigiosa Accademia di Breda, a Milano. Furono luoghi dove, grazie anche a maestri eccezionali, proprio attraverso l’arte, iniziò ad aprirsi alla dimensione sacra e religiosa.

Era quello un momento storico molto tragico per l’Italia e l’Europa, che si trovavano sotto il dominio fascista e nazista. Nel giovane Lorenzo, insieme ad una compagna di corso, “Tiziana dai capelli rossi”, maturò uno spartiacque netto e di rifiuto della dittatura che lo accompagnerà per tutta la vita.

Con lo stupore dei più, già nel 1942 avvertì sgorgare dentro il proprio cuore la fede e la vocazione alla vita religiosa. Decise di entrare in seminario a Firenze, dove nel frattempo si era trasferito con i genitori. Il periodo del seminario non fu semplice per lui, per via delle regole interne che sentiva obiettivamente retrograde e statiche, lontane dal vivido dinamismo del Vangelo.

Nel 1947 fu ordinato sacerdote nel sontuoso Duomo di Firenze. Venne assegnato come vice parroco prima a Montespertoli e poi, dopo pochi mesi, a San Donato di Calenzano, dove volle promuovere la sua esperienza innovativa della scuola serale per i lavoratori.

Gli si aprì così un mondo sociale che sentiva suo e che lo accompagnerà sino alla fine. Iniziò a scrivere un libro profetico per quegli anni, “Esperienze Pastorali” che concluderà a Barbiana. Un testo che subì la censura della Chiesa. I suoi rapporti con la Curia diventarono subito difficili: don Lorenzo Milani aveva un approccio troppo diretto e innovativo, per i gusti canonici di allora. Si decise di allontanarlo dal cuore di Firenze, per evitare che il suo particolare approccio pastorale potesse essere “contagioso”. Fu così spedito in un posto sperduto, dove si pensava che non potesse fare eccessivi danni, a Barbiana, in una sperduta frazione di un piccolo centro, Vicchio.

La montagna e la campagna trasudavano di povertà e arretratezza, ma don Lorenzo non si scoraggiò, anzi sentì che quella era la condizione privilegiata per annunciare e vivere una fede liberante.

Prese subito vita la Scuola di Barbiana, aperta a chi veniva rifiutato o bocciato dalla scuola pubblica di quel tempo, facendo della pietra di scarto la pietra d’angolo. Nella Scuola di Barbiana, campeggiava il motto “I Care” (ho cuore, ci tengo, mi importa) , cioè scelgo di farmi carico del prossimo, in opposizione al motto fascista, cinico e individualista, del “me ne frego”.

Non mancarono i guai per don Lorenzo. Nel pieno della “guerra fredda” e della corsa agli armamenti, si rivolse ai confratelli cappellani militari con una straordinaria Lettera in cui difendeva l’obiezione di coscienza al servizio militare e agli ordini sbagliati. Venne per questo denunciato e processato per il reato di apologia e incitamento alla diserzione e alla disobbedienza civile. Nel febbraio del 1966, con la pronuncia di assoluzione con formula piena, si concluse il primo processo che segnò la storia politica e culturale del cammino del nostro Paese verso un’ulteriore tappa di una effettiva democratizzazione. Nel processo d’appello che ne seguì, don Lorenzo Milani, ormai gravemente malato, si difese scrivendo l’altra memorabile Lettera ai giudici che, assieme alla Lettera ai cappellani, verrà raccolta nel libro-manifesto “L’obbedienza non è più una virtù”.

Con questa affermazione così sferzante, don Milani voleva far emergere il ruolo della consapevolezza e della responsabilità nelle scelte che compiamo, sia nei rapporti con le persone, sia nel legame da coltivare con l’idea di Patria, emersa dopo la liberazione dalla dittatura fascista, e nell’esercizio dei doveri istituzionali che hanno un valore diverso in un Paese democratico.

Nella Scuola di Barbiana si studiava e si leggeva molto, perché don Milani non voleva che le parole dei ricchi sovrastassero il lessico molto ridotto dei poveri. Per don Milani era importantissimo consentire ai ragazzi, con meno istruzione di partenza, di imparare a scuola quante più parole possibile e maneggiare al meglio il linguaggio: comprendere e farsi comprendere è il primo strumento per emanciparsi. Libri, giornali, poesie, saggi e fotografie fecero capolino nella moderna e rivoluzionaria pedagogia educativa vissuta a Barbiana. La scuola era popolare e a “tempo pieno”. Ci si immergeva sia nella teoria che nella prassi. Si infransero i cliché autoritari per dare corpo alla dinamica relazionale, comunitaria, responsabile e partecipata, che mette al centro la persona e la progettualità educativa integrata.

Si sperimentò e si realizzò una scuola realmente moderna e democratica, aperta e non discriminatoria soprattutto verso i figli dei contadini e dei lavoratori, dove nella pur sperduta Barbiana avevano la possibilità di incontrare intellettuali ed esperti di rilievo, ben noti e affermati.

Apriti cielo! Queste novità educative scatenarono polemiche a gogò. Molti benpensanti e conservatori non mancarono di stracciarsi le vesti e criticare una scuola così “eretica”.

Don Milani rilanciò e scrisse con i suoi studenti, alla fine della sua vita, la “Lettera ad una Professoressa”, che entrò in modo dirompente nella storia. In essa spiegò bene i limiti strutturali e fallimentari della vecchia scuola e avanzò un’altra idea di scuola, più consona alla nostra Costituzione e alla possibilità di dare a tutti l’accesso all’istruzione con un metodo progettuale ed educativo integrato, avanzato e ricco di stimoli creativi e di saperi culturali.

Siamo alle porte del 1968, nel quale emerse in tutta la società la necessità di rompere con le vecchie gerarchie sociali e di aprire le relazioni e le istituzioni a nuovi orizzonti di modernità e di giustizia sociale. Siamo nella fase storica della Chiesa impegnata a vivere un radicale cambiamento grazie all’ispirazione e alle scelte maturate nel Concilio Vaticano II.

Anche con la politica don Lorenzo Milani instaurò un rapporto innovativo e profetico. Condivideva il “già” da vivere insieme nella lotta per i diritti e per la giustizia sociale, ma ricordava che il suo sguardo era proiettato nel “non ancora” da scrutare e desiderare, senza appagarsi dei risultati raggiunti. Con la memorabile “Lettera al compagno Pipetta” tracciò un percorso tra fede e politica tuttora vivo e ricco di sviluppo.

Siamo adesso a cento anni della sua nascita. Ritornare sui passi di don Lorenzo Milani può solo farci del bene. Anche questa è una fase storica travagliata e delicata che richiede la capacità di ripensare e riprogettare il cammino non più solo di un Paese, ma dell’intera umanità.

Papa Francesco si è recato a Barbiana il 20 giugno 2017, per pregare sulla sua tomba e rilanciare la memoria e il messaggio di don Milani, dandogli un valore finalmente significativo ed esemplare per la vita di tutta la Chiesa, chiamata ad attraversare le intemperie dell’oggi.

Il Presidente Mattarella, proprio nel giorno del centenario, sarà a Barbiana per dare il giusto valore al significato etico e democratico delle intuizioni di don Milani e rendergli il tributo che lo Stato democratico gli deve. Le celebrazioni del centenario, promosse dal Comitato nazionale guidato dall’onorevole Rosy Bindi, saranno ricche di iniziative: si potrà fornire, soprattutto alle nuove generazioni, un esempio vivo e attuale di uno spirito libero e responsabile, che amava la fede in Dio e la giustizia tra gli uomini.

Con la pubblicazione di questo mese, la Rivista “Passione&linguaggi” si è dedicata ad un lavoro di scavo e di rilancio del pensiero di don Lorenzo Milani. La segnalo all’attenzione di quanti sentono il bisogno di mettersi alla ricerca di una via per proiettarci con fraternità e con amore verso il prossimo e l’ambiente, dentro “cieli e terre nuove”.

Per chi volesse saperne di più, suggerisco di gettare uno sguardo sulle quattro famosissime Lettere che abbiamo citato.




DA ANTONIO GRAMSCI C’È ANCORA MOLTO DA IMPARARE. PER RIPENSARE E RIPROGETTARE IL CAMMINO DELL’UMANITÀ

27 Aprile 2023

Dopo anni di atroci sofferenze nel carcere fascista, il 27 Aprile del 1937 si spegneva Antonio Gramsci. Fu arrestato, processato e condannato nel 1926 dal Tribunale Speciale del regime. Gli ultimi tempi della sua vita li passò in una clinica di Roma.

Antonio Gramsci è ancora uno degli autori italiani più studiati al mondo. Il suo nome figura come il secondo più cliccato nel web, subito dopo quello di Dante, di cui fu fervido critico e scrupoloso interprete.

Perché il suo pensiero è così studiato? Perché, ancora oggi, è fonte di ispirazione per gli studiosi dei cambiamenti sociali, culturali e politici?

La vita di Antonio Gramsci affascina man mano che se ne approfondiscono le varie tappe, con un ritmo sempre più incalzante. Visse in un piccolo centro della Sardegna in condizioni di povertà e privazioni, soffrendo intimamente per il senso di ingiustizia causato da una irrisolta questione meridionale. Trascorse la sua gioventù a Torino, dentro i travagli vorticosi della dimensione industriale, con l’emergere del mondo del lavoro come soggetto sociale e politico di cambiamento. Giunse a Roma per guidare, durante l’affermazione inarrestabile di Mussolini, il Partito Comunista in Parlamento e nella Società. Fu rinchiuso in carcere, dove trascorse il tempo a pensare, riflettere e scrivere, mentre la sofferenza reale del suo corpo si mescolava con la speranza ideale del suo cuore e della sua mente.

Nei suoi scritti, si trovano spunti ancora attuali per ripensare e riprogettare il cammino dell’umanità. I “Quaderni dal Carcere” sono una miniera inesauribile di inedite chiavi di lettura per dotarsi di un filo analitico e di un piglio progettuale nel promuovere il cambiamento sociale e politico. Le “Lettere dal Carcere” sono una straziante e appassionante relazione di vita impregnata di tensione ideale e di ricerca di autenticità esistenziale.

Viviamo un tempo in cui si avvertono diffusamente la fame e la sete di sapere per capire meglio le sfide presenti oggi e per orientare bene il cammino dell’umanità. Antonio Gramsci è un punto di riferimento fondamentale per chi sente di vivere attivamente con lo sguardo profondo e la visione vivida dentro i travagli e le speranze del nostro drammatico tempo storico.

Il concetto di “egemonia culturale”, il ruolo dell’“intellettuale organico”, la “questione meridionale”, la funzione del partito politico, il respiro ampio dell’internazionalismo contrapposto all’arretratezza del nazionalismo, l’uso per quei tempi avanzatissimo della “teoria del linguaggio”: sono tutti criteri guida da approfondire, anche criticamente, strumenti utili per interpretare la storia, per capire la società attuale e per progettare il futuro.