LA STORIA DI BEPPE ALFANO, INSEGNANTE E GIORNALISTA, MA SOPRATTUTTO UOMO CORAGGIOSO, UCCISO DAL SISTEMA POLITICO-MAFIOSO

LA STORIA DI BEPPE ALFANO, INSEGNANTE E GIORNALISTA, MA SOPRATTUTTO UOMO CORAGGIOSO, UCCISO DAL SISTEMA POLITICO-MAFIOSO

L’ 8 gennaio, in occasione del 31° anniversario dell’omicidio di Beppe Alfano, ho partecipato alla commemorazione organizzata dalla famiglia a Barcellona Pozzo di Gotto. Una storia di depistaggi, di mascariamenti, di negazionismo e minimalismo. Ma anche di coraggio, quello di Beppe Alfano, quello di una famiglia unita e determinata nella ricerca della verità per ottenere giustizia, con il decisivo e qualificato contributo dell’avvocato Fabio Repici. Insieme abbiamo guardato in faccia la dura realtà e l’abbiamo sfidata. Ma c’è ancora molto da fare, ancora molto da scavare. Naturalmente si paga un prezzo, che non è solo quello del rischio di essere colpiti da Cosa nostra. Il prezzo più alto è quell’esercizio fatto da quelle menti raffinatissime che provano a mascariare, a sporcare, per bloccare quell’azione di denuncia, di analisi, di progettualità antimafia che abbiamo sempre cercato di sviluppare.

LA STORIA DI BEPPE ALFANO, UCCISO DAL SISTEMA POLITICO-MAFIOSO: UNA SFIDA ANCORA APERTA. IL NOSTRO IMPEGNO PER RICERCARE LA PIENA VERITA’ E PER ACCERTARE LE PIU’ VASTE RESPONSABILITA’ VA AVANTI.

La mattina del 9 Gennaio del 1993 mi giunse la notizia che in Sicilia era stato ucciso Beppe Alfano. La vicenda mi colpì sebbene nell’immediatezza non sapessi esattamente chi fosse e perché fosse stato ucciso. Allora ero molto impegnato da presidente del Movimento del Volontariato Italiano a promuovere una cultura del cambiamento per risalire e intervenire alla fonte del disagio e dell’emarginazione, perché non ci si limitasse ad agire nel concreto ma si cercasse anche di risalire a monte per rimuoverne le cause, secondo gli insegnamenti della nostra magnifica Carta costituzionale. La lotta alle mafie era una di quelle cause: una causa strutturale e devastante, che toglieva libertà e diritti fondamentali, l’opportunità di sviluppo del territorio, la dignità delle persone e la stessa vita.

Appresi che Alfano era stato ucciso in Sicilia, in provincia di Messina, a Barcellona Pozzo di Gotto. Ma come – mi chiesi – anche nella provincia definita ad arte “babba” si uccideva con modalità che già al primo impatto tradivano la matrice mafiosa? Del resto erano mesi che da quella provincia arrivavano segnali contrastanti: da un lato, il sorgere del movimento antiracket e, dall’altro, l’avanzare di un senso di oppressione insopportabile, che era calato su molte comunità locali.

Barcellona Pozzo di Gotto mi appariva una realtà dalle forti tinte chiaroscure. Conoscevo l’impegno generoso ad esempio di don Peppe Insana contro i cosiddetti manicomi e in particolare gli ospedali psichiatrici giudiziari che ancora erano disseminati in giro per il Paese, nonostante la innovativa legge Basaglia, che non aveva fatto i conti con l’arzigogolato distinguo giuridico che sanciva la facoltà o l’obbligo di chiusura di quelle strutture in capo alle istituzioni. Allo stesso tempo, a Barcellona c’era da anni anche una enclave di estrema destra.

Beppe Alfano, professore oltre che giornalista, militava in quell’ambiente. Ma che cosa era successo? Cosa aveva scatenato quella feroce reazione contro di lui? Era sposato e aveva tre figli molto giovani. Chissà quanto dolore, quale strazio stava dilaniando Sonia, Chicco, Fulvio e Mimma! Scriveva su un quotidiano di rilievo regionale e aveva deciso di svelare affari e intrighi, collusioni e rapporti inconfessabili che a Barcellona stavano acquistando una potenza micidiale.

Con il trascorrere degli anni, l’oblio ha rischiato di prendere il sopravvento anche su questa storia, ammantandola di un grigiore diffuso e aprendo la strada al classico mascariamento: cominciarono a serpeggiare voci calunniose e velenose ipotizzando che conducesse una vita dissoluta.

Nel 1996, diventai membro della Commissione parlamentare antimafia con il delicato ruolo di Capogruppo dei DS. Custodivo nel cuore la storia di Beppe Alfano, mi tornava infatti in mente tutte le volte che pensavo a quel territorio. I miei interrogativi cominciarono a farsi ancora più forti, scatenando in me il desiderio di saperne di più fino a stimolare la mia responsabilità istituzionale.

Dopo l’omicidio del medico endoscopista e docente universitario Matteo Bottari a Messina, il 15 gennaio 1998, capii che bisognava fare una scelta. Svolsi attente verifiche su ciò che succedeva in quella provincia e non fu difficile smascherare che non era per niente “babba”.

Mi assunsi quindi la responsabilità di dare il via a un’inchiesta della Commissione antimafia, così il “caso Messina” esplose in tutta la sua virulenza. Emerse subito il contesto mafioso che nel frattempo si era maggiormente delineato a Barcellona Pozzo di Gotto. Più scavavo e più emergevano le trame di un pericoloso rapporto tra cosa nostra e alcuni ambienti di estrema destra, tra cosa nostra e gli apparati, tra cosa nostra e gli oscuri mondi massonici, tra cosa nostra e settori rilevanti della politica, degli affari e delle istituzioni.

Beppe Alfano meritava a buona ragione la massima attenzione. Decisi allora di rompere gli indugi e, in occasione del decimo anniversario del suo assassinio, partecipai alle iniziative per la sua commemorazione, prima la messa solenne e poi la manifestazione pubblica in sua memoria. In quella occasione proposi la mia lettura su Beppe Alfano come persona di valore, sulla sua lotta e sul contesto collusivo in cui aveva agito. Mi fece molto piacere che anche l’avvocato Fabio Repici conveniva in tale direzione riportando con coraggio e lucidità dati fattuali presentati con un rigore analitico straordinario. Mi colpì pure la scelta per niente semplice della famiglia di rompere con il cliché della retorica, che era l’altra faccia dell’oblio con cui si voleva mettere una pietra tombale sulla ricerca dei veri motivi che avevano provocato l’assassinio di Beppe Alfano, su quello che aveva scoperto, sulle ragioni per cui le indagini nel frattempo non decollavano.

Era in sostanza chiaro che Beppe Alfano aveva messo il dito nella piaga dei rapporti e degli affari loschi del territorio: il bieco e strumentale utilizzo dei disabili da parte di una importante organizzazione come l’AIAS (Associazione Italiana Assistenza Spastici) per ottenere i finanziamenti della Regione, il ruolo collusivo di settori del circolo “Corda Fratres”, che si occupava di sociale, il riciclaggio che si consumava intorno al vicino porto turistico, alle isole Eolie e al territorio del barcellonese, perfino il diffondersi di un rilevante traffico di armi.

Oltre a questo dedalo di intrighi e collusioni, Beppe Alfano aveva colto un altro profilo, che si rivelò esiziale per la sua vita: in quel territorio era stabile la presenza di un boss del calibro di Nitto Santapaola, capo di cosa nostra catanese. L’omertà e l’affidabilità mafiosa gli garantivano una buona latitanza, non solo perché era una zona dove poteva facilmente fare buoni affari ma anche perché con alcuni protagonisti locali poteva aumentare il suo livello di interlocuzione con i massimi vertici di cosa nostra, soprattutto con i corleonesi, e partecipare così al gioco grande delle stragi del biennio 1992-1993. Grazie ad esempio a Rosario Pio Cattafi, poteva entrare nei salotti dove si consumavano trame e deviazioni sulle stragi, come è ben analizzato in diversi documenti e relazioni della stessa Commissione Antimafia.

Beppe Alfano non si fece oscurare la mente dalla sua appartenenza politica, comprese che una parte di quel mondo era implicato nelle trame nere che in Sicilia si collegavano anche con cosa nostra. Non coprì o giustificò la deviazione di molti suoi amici che condividevano la sua stessa storia politica. Non svendette la sua libertà e il suo rigore intellettuale al bieco compromesso e all’opportunismo di convenienza. Volle invece dare una mano nel raccogliere quella domanda di cambiamento che iniziava a spirare anche nel suo territorio sul piano sia culturale che politico.

Fu così “avvertito” ma non si piegò, fu pesantemente minacciato ma non si arrese. Andò avanti tra mille travagli interiori per la sua sorte e soprattutto di quella della sua famiglia a testa alta, consapevole dei rischi cui andava incontro. Chissà quanti tormenti provava nel guardare i propri figli e la propria moglie sapendo di avere i giorni contati, eppure il desiderio di verità e giustizia, di liberazione dalla mafia prevaleva. La sera dell’8 gennaio 1993 si consumò la preannunciata sentenza di morte.

Non va mai sottovalutato il fatto che cosa nostra dei feroci corleonesi faceva affidamento sulla provincia di Messina, così i mafiosi-neri del boss Rampulla avevano fornito l’esplosivo, mentre da Barcellona era arrivato il telecomando da utilizzare per la stage di Capaci. Altro che “provincia babba”!

Fin da subito si scatenarono mascariamenti e depistaggi, mentre il contesto “negazionista” e “minimalista” riproponeva il ritornello della provincia lontana dalle mafie. La figlia più grande, Sonia, in tante occasioni ha spiegato il ruolo devastante di magistrati come Olindo Canali, di come fossa monca la condanna di Nino Merlino come esecutore del delitto e fuorviante la limitazione al solo boss locale Giuseppe Gullotti della qualifica di mandante. Ha più volte descritto quello che accadde a casa sua dopo l’uccisione, dove fin da subito si presentarono non solo gli investigatori ma anche gli apparati dei servizi. Ha raccontato delle preziose indagini che Beppe Alfano aveva scolpito nel suo computer, accompagnata sempre dal coraggio e dalla lucida capacità professionale e umana dell’avvocato Fabio Repici che puntualmente ha descritto e denunciato protagonisti, ritardi, incongruenze e piste di indagine da coltivare.

Passano gli anni e nonostante la vicenda giudiziaria non decolli, come pure sui casi di Attilio Manca, Graziella Campagna e Adolfo Parmaliana, si mantiene alto l’impegno di motivata denuncia, che ci dà oggi la possibilità di ricordare Beppe Alfano a testa alta e di consegnare il suo esempio alle nuove generazioni, per continuare a ricercare la piena verità e accertare le più vaste responsabilità.

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