DIALOGO SUI TRAVAGLI DELLA FEDE, LETTERA DEL 16 NOVEMBRE: IL DOLORE

DIALOGO SUI TRAVAGLI DELLA FEDE, LETTERA DEL 16 NOVEMBRE: IL DOLORE

Mi capita spesso di dialogare con Silvia. Silvia è una donna intelligente, piena di curiosità, non credente ma aperta alle domande più radicali che la vita ti pone e, recentemente, molto interessata a comprendere la dimensione religiosa sul pensare e dire Dio dentro i duri travagli del nostro tempo.

Giuseppe Lumia

Dialoghi, Lettera del 16 Novembre

Il dolore fa parte della vita, non va né subito né rimosso. Ma anche il dolore deve diventare sorgente di liberazione.

Cara Silvia,

mi hai sollecitato a riflettere insieme su un aspetto molto spigoloso e reale dell’esperienza umana, con antichi risvolti religiosi: il dolore. Una dimensione preponderante dell’esistenza, che affonda quando meno ce lo aspettiamo nella vita di ognuno di noi e che segna anche questo momento storico così travagliato. Non c’è persona che non lo viva, non c’è società che non lo produca: il dolore è in sostanza parte integrante del cammino dell’umanità.

Da piccolo, mi colpiva una sorta di litania che sentivo ripetere tra gli adulti: la vita è fatta di molti dolori e di poche gioie. Sì, cara Silvia, purtroppo il dolore lo incontriamo spesso, un po’ meno la gioia, eppure entrambi sono ben presenti dentro di noi. Anzi, sai che ti dico? Sono due facce della stessa medaglia del fluire della vita.

Anche la Chiesa ha compreso, seppure in ritardo, che ignorare questa doppia condizione non va bene, che era un errore sbilanciare l’esistenza umana solo sul dolore e sulla sofferenza. Nella storia più recente della Chiesa, grazie all’evento del Concilio Vaticano II, si è compreso che la fede non si coltiva nel castello dorato, sbarrato e ben protetto della “societas”, per di più considerata “perfecta”, ma nel vasto, aperto e plurale Popolo di Dio, che nel suo radicarsi nella vita fa proprie “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi”.

Cara Silvia, purtroppo dobbiamo ammettere che non siamo educati né all’incontro con le tante forme del dolore, né alla ricerca di gioie autentiche.

Il dolore, così, quando arriva ci devasta e spesso sconquassa tutta la nostra esistenza. Il più delle volte non ci resta che subirlo passivamente oppure ribellarci ad esso, sino al punto di tentare di rimuoverlo dalla quotidianità, per una sorta di comprensibile legittima difesa. Quando lo subiamo, rischiamo di diventarne succubi: ci trascina in un vortice di lacerazioni interiori, di privazioni psicologiche, di ripiegamenti egoistici. Quando cerchiamo di allontanarlo da noi, spesso ne nascondiamo o trascuriamo le cause: il venir meno di un affetto importante o del grande amore, la scomparsa di una persona cara, la difficoltà del vivere giorno per giorno, la fatica insita nel convivere con la sofferenza.

Cara Silvia, non è per niente semplice, ma il dolore, invece, va accolto e al tempo stesso elaborato. Se vissuto “bene”, possiamo superarlo e può diventare addirittura un veicolo di liberazione interiore e sociale.

Spesso succede che si riscopra o si incontri per la prima volta la fede proprio mentre si è nel vortice della sofferenza causata dal dolore. Ci affidiamo ad una fede in un Dio che consola, che lenisce le ferite. Pensiamo alle tante forme di dolore fisico e psicologico: quello indicibile provocato dalle guerre, dalle catastrofi naturali e dalle violenze di genere, quello insopportabile causato da malattie gravissime o dalla scomparsa prematura di un proprio caro, figuriamoci poi se si tratta di un figlio, o quello imposto dalle privazioni conseguenti alle umiliazioni che discendono da situazioni di povertà, dalle disuguaglianze, dall’essere schiavi delle dipendenze o assoggettati alle mafie. La fede diventa allora una potente medicina, una specie di terapia del dolore.

Eh sì, cara Silvia, la fede, tutte le fedi in genere, aiutano a non farsi travolgere dal dolore.  Ma la fede in Cristo non è solo terapeutica, è qualcosa di immenso: è una “fede di liberazione”, sempre arsa di amore e di ricerca della gioia, pur non rinnegando il passaggio del dolore. Pensiamo al Cristo della Croce, che fa sino in fondo l’esperienza tragica della sofferenza e fa suo il dolore in tutta la sua radicalità umana, e comunque vuole che sia liberante, che la sofferenza ci faccia maturare, ci renda più saggi e più aperti alla prossimità. Il Cristo alla fine risorge, vince il dolore e addirittura si impone sulla morte. La fede cristiana è pertanto liberazione, anticipazione del “già” del regno inesauribile dell’amore.

Pensa un po’, cara Silvia, mentre mi interrogavo sul dolore, mi è riaffiorato alla mente il ricordo di un lontano incontro spirituale che da giovane ho vissuto nella Federazione degli Universitari Cattolici della FUCI. Eravamo ospiti nel monastero delle suore Camaldolesi, nella magnifica oasi del Colle dell’Aventino, a Roma. Sono passati tanti anni, ma quella giornata ha segnato la mia memoria: un giovane sacerdote peruviano, oggi Vescovo alla guida della diocesi di Lima, ci introdusse alla lettura del Libro di Giobbe, attraverso l’interpretazione di un grande teologo, Gustavo Gutierrez, nel saggio “Parlare di Dio. A partire dalla sofferenza dell’innocente”.

Sai, Silvia, Giobbe era un uomo devoto, traboccava di fede e delle migliori virtù. Eppure il diavolo era convinto che la sua fede fosse tipicamente “retributiva”, nel senso che amava Dio perché veniva ampiamente ricompensato. Riteneva che, messo alla prova, alla prova del cieco dolore e della sofferenza sorda, la sua fede sarebbe crollata come un edificio senza solide fondamenta. Fu così che Giobbe subì, tutto ad un tratto e senza capirne il motivo, tutte le disgrazie di questo mondo. Si ridusse in breve tempo malato, sofferente e misero. In questa nuova condizione estrema, viveva la sua fede come un essere umano provato: alcuni giorni teneva duro e continuava ad affidarsi a Dio, altri si smarriva e si lamentava e la sua fede barcollava. È un racconto biblico che ci prende, ci avvolge e ci trasporta nei misteri della vita e del legame con la fede. Tra l’altro, è una storia biblica espressa con un linguaggio meraviglioso: eloquente, diretto e potente. Fa venire la voglia di leggerlo!

Il giovane sacerdote presentò a noi giovani un’idea della teologia della liberazione che ispirava allora un intenso impegno per la giustizia e contro le violenze in tantissime comunità di base, non perché la fede ricolma di virtù, beni e potere, ma per l’amore disinteressato che fa sgorgare dalle sorgenti della nostra coscienza, della nostra anima il dono della prossimità gratuita e desiderosa di condividere gioie e dolori, limiti e speranze.

Ecco perché, cara Silvia, il dolore va accettato ma non subito, è un passaggio e non la meta. Alla fine del percorso, la fede è amore, è gioia, è liberazione.


Lettere Precedenti


Dialoghi, Lettera del 6 Agosto

La Trasfigurazione di Gesù e il fungo atomico di Hiroshima. I due sentieri del cammino dell’umanità

Cara Silvia,

ti ringrazio di cuore per avermi stimolato più volte a riflettere su questo strano incrocio della storia. Il 6 agosto fanno capolino due momenti che segnano il cammino dell’umanità, uno antico e l’altro più moderno. Uno capace di aprire nuovi orizzonti, l’altro di chiuderli definitivamente. Uno aperto alla ricerca di cieli e terre nuove, l’altro chiuso in quell’autoreferenzialità e presunzione che non guarda in faccia nessuno.

Il 6 agosto celebriamo la Festa della speranza e dello splendore nella Trasfigurazione di Gesù. Nello stesso giorno, tornano ai nostri occhi le strazianti immagini del lancio della prima bomba atomica su una comunità.

Cara Silvia, ti confesso che sin da ragazzo non riuscivo a comprendere bene il concetto così apparentemente astruso insito nella Trasfigurazione. Ti assicuro che mi interrogavo per riuscire a comprendere bene il suo profondo significato teologico, ma mi veniva difficile entrarci dentro con il cuore e la mente. Mi fu più semplice chiudere la questione imparando a memoria lo stretto necessario: è la giornata in cui Gesù si manifesta nella sua natura divina. Gesù oltre che uomo è Dio. Due nature nella stessa persona.

Con il passare degli anni, però, sentivo il bisogno di vivere questa giornata con un cuore e una mente aperti ai suoi più intimi significati.

Anche la vicenda dello sgancio della bomba atomica su Hiroshima lasciava dentro di me una sorta di terribile inquietudine. La mia mente andava a quella mattina del 6 agosto 1945, il giorno in cui l’Enola Gay arrivò nel cielo sopra Hiroshima, mentre le persone si svegliavano affaccendate nel tran tran della vita quotidiana. Alle ore 8:16 locali, crollò loro addosso una bomba capace di incenerire tutto. Che strazio e che dolore indicibile, chissà quale smarrimento ha stordito tutto ad un tratto gli abitanti di quella città giapponese. Ben 65.000 morirono subito, altri centomila nei mesi successivi e si stima che fino ai nostri giorni altri trecentomila si sono ammalati a causa degli effetti della radioattività che da quella lontana mattina si sono scatenati nella loro esistenza.

La Festa della Trasfigurazione richiama lo splendore della divinità di Cristo. Il fungo di Hiroshima richiama invece il tunnel buio in cui l’umanità spesso inciampa e cade.

A ben pensare, sono due sentieri che si incrociano ripetutamente, sebbene nei nostri cuori e nella nostra mente tendiamo inevitabilmente a tenerli separati, come se fossero due realtà distanti. Due mondi così diversi che non parlano simultaneamente agli uomini e alle donne del nostro tempo.

Cara Silvia, ci fu un momento della mia gioventù in cui le cose mi furono più chiare. Ebbi una preziosa occasione per comprendere meglio il significato dell’intreccio di questi due eventi così epocali.

Da giovane universitario, un 6 agosto, mi trovavo nel magico monastero di Camaldoli, tra i meravigliosi monti del Casentino, dove la FUCI – fin dagli anni Trenta, per costruire un’identità e un percorso lontani e alternativi a quelli dominanti del fascismo – radunava i ragazzi universitari per partecipare alle settimane di preghiera, di riflessione culturale e teologica e, come sempre succede tra i giovani quando stanno insieme, di gioia e spensieratezza.

Quell’anno, durante la celebrazione eucaristica, don Benedetto Galati, priore dell’ordine benedettino dei Camaldolesi, fondato da san Romualdo, ci illuminò con una lettura sapienziale che mi colpì e che non ho più dimenticato. Ci presentò una lettura in cui la Trasfigurazione e Hiroshima segnavano i due sentieri che si intrecciano continuamente nella storia dell’umanità.

La Trasfigurazione ci veniva spiegata come il momento in cui Gesù si manifesta come Dio, non attraverso la potenza di chi distrugge o incute paura, ma mentre era appartato su un monte (alcuni storici sostengono si trattasse del monte Tabor, altri del monte Hermon) e dialogava con Mosè ed Elia, alla presenza dei suoi discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni, che partecipavano estasiati. Il vero Dio e il vero uomo non sono due persone diverse, ma sono la stessa persona, pensa un po’ cara Silvia, e la luce e lo splendore si accendono mentre Cristo dialoga. Ecco la bellezza infinita: lo stupore che avvertiamo di fronte a un Dio che è, allo stesso tempo, totalmente altro e una persona umana in tutto e per tutto, che si manifesta nel relazionesimo e nel fraternariato.

Silvia cara, chissà quante volte siamo portati a considerare solo la dimensione di Dio totalmente altro, altre volte solo quella del Dio dell’umanità, senza trascurare il fatto che spesso le mettiamo addirittura in contrapposizione. Certo, ci viene difficile comprendere e vivere entrambe le nature. Ma è ancor più difficile pensare che quello splendore che fa luce al cammino dell’umanità non è una dimensione che acceca e fulmina l’intelligenza e il cuore degli uomini e delle donne, ma si dona attraverso il dialogo, con dolcezza e mitezza, perché vuole accogliere e condividere e non imporre e costringere.

L’altro sentiero che è entrato a far parte di noi è il “fungo” della distruzione che si alza, brucia e spazza via tutto, come tante volte la storia ci insegna che è accaduto. Solo che, con Hiroshima, la bomba atomica ha un significato ancora più devastante, perché abbiamo compreso che la guerra nucleare incombe su di noi e può spegnere del tutto il cammino dell’umanità. In sostanza, l’essere umano, con la violenza che sprigiona e con la sua “creatività” distruttrice, è capace di arrivare a un culmine tale da fagocitare se stesso.

Ma attenzione, i due sentieri si intersecano, per cui dentro ognuno di noi vivono sia lo splendore della Trasfigurazione sia il fungo di Hiroshima. Lo stesso avviene nella società, nell’economia, per non parlare della politica. Basti pensare alle cose meravigliose di cui l’umanità è capace con le positive scoperte scientifiche, con le esperienze che il mondo del volontariato autentico ci dona, con i gesti di generosità di cui ognuno di noi ha fatto esperienza fin da bambino soprattutto grazie alle nostre mamme, senza trascurare i tanti cammini di liberazione collettivi che attraversano la storia e a cui dobbiamo dire continuamente grazie. Nello stesso tempo sappiamo quanto odio, quante guerre, quante disuguaglianze, quante aggressioni all’ambiente, quante povertà produciamo e ci trasciniamo appresso. Basti pensare alle scioccanti immagini di quella mamma con la sua bambina lasciate morire di sete e di fame nel deserto, oppure agli incendi e alle inondazioni che devastano continuamente la natura.

Insomma, cara Silvia, lo splendore e l’oscurità fanno parte di noi. Ogni giorno siamo chiamati a decidere se debba prevalere l’uno o l’altra, se la speranza della luce orienta il cammino o se ci lasciamo travolgere dal buio della violenza.

Cara Silvia, la Festa della Trasfigurazione e la memoria di Hiroshima stanno lì a rammentarci che non possiamo non sapere. Ecco perché è il momento, più che mai, della scelta consapevole e responsabile. Tutti siamo parte del destino dell’umanità e tutti siamo chiamati a dare il meglio di noi stessi.


Dialoghi, Lettera del 28 Maggio

La Pentecoste è la festa dell’Amore di Dio che decide di non lasciarci più

Cara Silvia,

la Pentecoste è una vera e propria festa. Si celebra di domenica e nel calendario liturgico si pone al cinquantesimo giorno dalla Pasqua. Il colore dominante è il rosso. Da piccolo, ricordo i petali di rose rosse che venivano lanciati per evocare la discesa dello Spirito Santo sul capo dei discepoli.

Viene celebrata non solo dalla Chiesa cattolica, ma anche dalla Chiesa ortodossa e dalle Chiese protestanti. Come la Pasqua, la Pentecoste si propone di arricchire un’altra importante festa giudaica, nella quale si commemoravano la manifestazione della legge divina, avvenuta sul Sinai durante l’Esodo, e l’offerta delle primizie delle messi.

Sì, Silvia, abbiamo più volte dialogato sul pensare e dire Dio oggi, dentro i nostri tempi così travagliati e convulsi, carichi di drammi devastanti ma pure, a saper scorgere, di speranze straordinarie.

La Pentecoste ci aiuta a comprendere come vivere in questo Tempo ambivalente dell’umanità, alla ricerca di “cieli e terre nuove”. Non è azzardato pensare alla Pentecoste come il Tempo in cui l’Amore di Dio decide di non lasciarci più.

Ricordi, Silvia? Con la venuta di Cristo, l’Amore di Dio viene a farsi quotidianità, calandosi nelle più radicali delle sue condizioni: il dolore indicibile della dignità violata e la morte che zittisce e ci avvolge senza senso, entrambe ben rappresentate prima con l’umiliazione di Cristo lungo la Via Crucis e poi con l’oscurità della Sua Crocifissione.

Quante volte ci siamo chiesti, studiando la storia, perché Dio è stato spesso così lontano dal cammino dell’umanità, soprattutto quando la vita subiva le aggressioni di ogni tipo, sia da altri esseri umani, sia dalla stessa natura. In effetti potremmo onestamente riconoscere che una certa lontananza sia avvenuta troppe e troppe volte.

Rispetto all’Antico Testamento, nei Vangeli ci viene raccontato bene che Dio ha cambiato passo. Nel lungo “cammino di salvezza” ha fatto ad un certo punto una scelta dirompente: ha mandato suo Figlio per fare dell’Amore il suo modo naturale di manifestarsi e di indicare una possibile Speranza.

Con la vita e la Resurrezione di Cristo, Dio ha voluto indicarci che il dolore, anche il più insopportabile, e la morte, pure la più assurda, non sono invincibili. Dio con l’Amore, e non con la paura o con la violenza o con le maledizioni tipiche di un certo sentire religioso, va molto oltre e apre la storia a nuovi orizzonti.

Ma sappiamo anche che l’umanità non è di facile comprendonio, è a volte ottusa e autoreferenziale: sulle innovazioni tecnologiche è sempre stata capace di tutto, pronta ad aprirsi al nuovo e in grado di realizzare cose mirabili; sulle relazioni, soprattutto tra uomini e donne, cammina lentamente e spesso procede a ritroso, così nel rapporto con l’ambiente, dove la devastazione prende spesso il sopravvento.

Silvia cara, Dio ha scelto di non arrendersi alla nostra testardaggine e ha rilanciato: ha deciso di fare del Suo Amore addirittura la dimora dell’umanità. Insomma, non è più il Dio lontano e distaccato che ogni tanto ci degna di attenzione. Con lo Spirito Santo, l’Amore di Dio vive nel “già” della quotidianità e ci dà dei primi assaggi di quel “non ancora” che vivremo in una Luce che illumina la morte e la vince per noi.

La Pentecoste è allora l’Amore di Dio che, grazie allo Spirito Santo, è sempre alla portata dell’umanità. Bisogna naturalmente aprire il cuore e saperlo accogliere.

Come si manifesta lo Spirito Santo nella Pentecoste?

Sai, Silvia cara, c’è un’immagine che spesso abbiamo visto dipinta in chissà quanti quadri d’autore. Mi riferisco alla manifestazione più evidente dello Spirito Santo che è riportata nel racconto della Pentecoste (Atti degli Apostoli 2,1-11). Si racconta che gli Apostoli e Maria stavano insieme nel Cenacolo, in un giorno di Festa per il Popolo Ebraico. Sentirono intorno a loro un fragoroso rumore e un vento impetuoso, al punto che invase la dimora in cui si trovavano, quando lo Spirito Santo apparve loro come lingue di fuoco che si moltiplicavano e si posarono sul capo di ciascuno di essi. Da quel momento, la loro vita cambiò radicalmente. L’annuncio di Cristo Risorto diede loro un’energia prima sconosciuta, tanto che divennero capaci di dare parola e significato alla venuta di Cristo, di annunciarla sia agli ebrei che agli stranieri parlando le più diverse lingue, e riuscendo ad essere compresi nell’essenza più profonda del loro messaggio.

È il momento in cui si pensa che nasca la Chiesa stessa, grazie ad una comunità intrisa di Amore e desiderosa di condividerlo, senza pregiudizi e preclusioni, con la consapevolezza che lo Spirito soffia dove vuole.

Nel Vangelo, lo Spirito Santo spesso viene rappresentato da una creatura anch’essa dipinta su tantissimi teli: la Colomba bianca che vola o si posa. È La sacra Colomba della Pace, di cui avvertiamo più che mai l’esigenza affinché sia accolta e non umiliata nelle tante guerre in cui l’umanità continua stupidamente a fagocitarsi.

Nella storia delle religioni, mai un Dio si dona agli esseri umani e all’ambiente dando al Suo Amore un tale radicamento. In teologia, tale mistero viene indicato come incarnazione di Dio, sino al punto da farsi Padre, Figlio, Spirito Santo. Ma sul complesso e fascinoso “mistero” della Trinità avremo modo di dialogare.

Per adesso godiamoci il Dio-Amore dello Spirito Santo che viene in mezzo a noi.

Ma attenzione, Silvia: come Cristo è pienamente Dio-Amore, così lo Spirito Santo è pienamente Dio-Amore.


Dialoghi, Lettera del 6 Aprile

La Settimana Santa Pasquale

Cara Silvia,

La settimana Pasquale è l’evento centrale del pensare, dire e vivere Dio. È il cuore più profondo del Dio Cristiano.

Certo Silvia, sai bene che la Settimana Santa è scandita da tappe ancora oggi incredibili, che un po’ tutti abbiamo impresse nella nostra memoria sin da bambini. Pensa che io le ho vissute per tanti anni da chierichetto partecipando alle affascinanti, solenni e spesso estenuanti cerimonie religiose, dove fede e religiosità popolare si intrecciano in riti che affondano le radici nella notte dei tempi.

Ricorderai senz’altro la Domenica delle Palme, i ramoscelli di ulivo che vengono distribuiti dai ragazzini davanti le Chiese o le bellissime Palme realizzate con antica maestria e tanta pazienza. È il giorno dell’entrata di Cristo a Gerusalemme. Il popolo acclama con gioia. Molti sperano in un Messia leader politico. I sacerdoti e i potenti di allora si allarmano: preferiscono sottostare all’impero romano piuttosto che avere a che fare con un Cristo che, in groppa a un umile asinello, promuove una Pace frutto dell’Amore liberante da poteri e culture, gerarchie, riti e relazioni. Gesù viene prima esaltato e poi sporcato, diremmo oggi “mascariato”. È la giornata emblematica delle contraddizioni dell’umanità: gioia e dolore si mescolano e si abbattono nella vita di ognuno di noi e della stessa società, con una forza spesso estrema che fa del male alla Pace, alla Giustizia e alla Salvaguardia del Creato.

Non ti chiedo di ricordare, perché sono episodi meno “famosi”, il Lunedì Santo dell’Amicizia in cui Gesù si reca a Betania per stare insieme a Marta, Maria e Lazzaro. O di ricordare il Martedì Santo dello sdegno, per cui Gesù scaccia i mercanti dal tempio. O, ancora, il Mercoledì Santo, in cui si consuma il tradimento di Gesù.

Ricorderai, invece, il Giovedì Santo dell’Ultima Cena, quando si era soliti in serata fare il giro dei Sepolcri, in rigoroso numero dispari. Si puntava decisamente su almeno tre Chiese da visitare per pregare e meditare in ginocchio davanti ad Altari-Sepolcri ornati di fiori meravigliosi. Ma del Giovedì Santo era la lavanda dei piedi che mi imprimeva dentro quel senso particolare di umiltà dell’amore di Dio verso l’umanità. Un Dio così umile è in effetti sorprendente e difficile da riscontrare nella storia delle diverse fedi in Dio.

Il Venerdì Santo senz’altro lo ricorderai come un giorno in cui tutto era intriso dal dolore. Mi colpiva la processione della Via Crucis per le strade: il “Cristo Morto” sdraiato nella bara, la “Madonna Addolorata”, malinconica e con il cuore trafitto da un pugnale, avvolta rigidamente da un mantello nero. Le litanie dolorose scandivano i cori e le musiche luttuose ritmavano le note della Banda Musicale. Il Venerdì Santo, poi, si chiudeva la sera davanti alla tv per assistere alla diretta della Via Crucis del Papa intorno il Colosseo: un tragico e magico contesto dove la Passione via via scolpiva il modo di annunciare l’Amore di Cristo nella società. Il Venerdì Santo è la dimensione dell’amore straziato dal dolore, di cui si può comprendere tutta la devastante portata solo quando se ne fa esperienza diretta.

Il Sabato sicuramente ricorderai che scorreva nel silenzio. I Crocifissi venivano coperti da stoffe nere. Si parlava con una voce soffusa e si teneva un comportamento molto composto. La Veglia in Chiesa durava almeno due ore e mezza, per poi esplodere con un trionfo di luci alla mezzanotte: con l’avvio della Domenica, arriva finalmente la tanto attesa Pasqua della Resurrezione. Nel Duomo della mia Chiesa Parrocchiale un maestoso Crocifisso veniva voltato lentamente e si esponeva così il lato del Cristo Risorto. È l’Amore che esplode in tutte le sue potenzialità, che abbatte barriere e muri altissimi, che raggiunge tutti quanti intendano aprire il proprio cuore.

Sai certamente, Silvia, che la Pasqua è molto antica. Nel Vecchio Testamento rappresenta il passaggio del popolo ebraico attraverso il Mar Rosso, il passaggio dalla lunga schiavitù in Egitto alla agognata liberazione attraverso un Esodo travagliato, verso la Terra Promessa. Ho sempre sott’occhio un bel libro di Michael Walzer, “Esodo e Rivoluzione”, che sono sicuro ti piacerà leggere.

La Pasqua di Cristo scolpita nel Nuovo Testamento si presenta con una inedita radicalità immensa: Dio con Cristo decide di scendere nella dimensione più profonda dell’umanità, facendo proprio il dolore e le umiliazioni indicibili, con la Passione che giunge alla straziante Crocifissione. Ma Dio con Cristo si spinge più avanti e vince la morte… apre l’umanità alla Speranza di un Amore sconfinato, senza limiti, in grado di far capire che la Pace è possibile anche quando la morte sembra chiudere e oscurare l’orizzonte. È la Resurrezione di Cristo che fa della Pasqua un evento che apre la Storia ad una dimensione nuova: della liberazione da tutto quello che ci rende schiavi, a cominciare da pregiudizi, cattiverie, odi, violenze verso il prossimo, soprattutto i più deboli, verso i popoli e l’ambiente e ci proietta nell’impegno verso Cieli e Terre nuove.

Sì, Silvia cara, la Settimana Pasquale è condividere il Dolore, ci chiama alla Liberazione e alla fine ci apre alla Resurrezione. Ognuna di esse dischiude e nutre l’altra. Ognuna deve accompagnarci ancora in questo nostro Tempo nel ripensare e riprogettare il cammino dell’umanità.


Dialoghi, Lettera del 14 Marzo

Quaresima – Preghiera, Penitenza, Prossiminità per un cammino di Fede liberante, di speranza e liberazione

Cara Silvia,

nel dialogo che abbiamo avuto di recente sulla Tua ricerca di Dio da non credente, mi hai chiesto di scriverti sulla Quaresima.

È un periodo che caratterizza più di ogni altro il cammino di fede, tanto da far vibrare, scuotere e ricapitolare ogni cosa: inizia il Mercoledì delle Ceneri e termina nel Giovedì Santo, che viene dopo la Domenica delle Palme e precede il Venerdì di Crocifissione e il Sabato della Pasqua di Resurrezione, il culmine più drammatico, bello e atteso della Speranza cristiana.

Devo ringraziarti perché con la tua domanda mi aiuti a mettere fuoco una fase della vita religiosa che mi ha sempre coinvolto e affascinato: processioni, viae crucis, celebrazioni dense e particolari in quanto ricche di simboli e riti. Da bambino, nel ruolo di chierichetto, ne coglievo gli aspetti concreti: preghiera, penitenza, prossimità. Dopo, ho avuto la possibilità di meditarci sopra ma, Silvia cara, le conclusioni sono rimaste sostanzialmente le stesse!

Non è, in effetti, un periodo da dedicare allo studio teologico. È piuttosto un’opportunità per avviare un percorso molto intenso di conversione, di cambiamento, di messa in discussione, di ricerca. Tutti aspetti un po’ simili tra loro, che ognuno di noi sente spesso di vivere lungo l’arco della propria vita, e che nella Quaresima si concentrano: è come se questo tempo fosse l’estratto del pomodoro migliore, che alla salsa delle ricette tradizionali, naturalmente quella vera e biologica del Sud, conferisce un sapore dai mille retrogusti, forte e mirabolante.

Ma attenzione, Silvia, ho anche capito negli anni che da soli si può fare poco. Bisogna essere aiutati da tre dimensioni: la Preghiera, la Penitenza, la Prossimità.

Innanzitutto, la Preghiera in un Dio che ci ama nonostante tutto e in modo del tutto disinteressato. Aiutati dalla Preghiera in un Cristo che ci ha amati al punto tale che ha scelto di vivere in tutto e per tutto (la dottrina dice “quasi”) come noi, in mezzo a noi e di condividere una fede liberante e di liberazione. Aiutati dalla Preghiera in uno Spirito Santo che è Amore, che sa perforare le nostre armature psicologiche e caratteriali per arrivare in profondità: abbatte barriere e pregiudizi, soffia dove vuole e ci raggiunge anche quando meno ce lo aspettiamo. Pregare, di questi tempi, sembra strano: nel tempo dell’“Io” autoreferenziale, può apparire una vera e propria perdita di tempo. Ma scava scava, spesso avvertiamo il bisogno di uscire dal nostro “Io” per andare incontro all’Altro, simile o diverso da noi, alla Comunità, con i drammi e le speranze che la caratterizzano e, perché no, al totalmente Altro: il Dio appunto! La Preghiera, soprattutto in Quaresima, significa pertanto aprirsi. Altro che chiudersi in un solipsismo irenico e autosuggestivo!

Sai, Silvia, pure la Penitenza è, nella Quaresima, una condizione di fede che ti aiuta nel fisico e nella mente, per dare spazio nella Tua coscienza all’incontro dell’Altro, della Comunità e del totalmente Altro. Penitenza da vivere, come ci sollecita Papa Francesco, soprattutto nelle piccole cose: meno cibo, meno lusso, meno feticci, meno egoismo, meno presunzione, meno prepotenze, meno arroganza, meno ingiustizie… Tanti meno, forse troppi. Già basterebbe uno di questi al giorno per farci sentire meglio e aprirci il cuore alle dimensioni profonde dell’esistenza e delle relazioni con gli altri e la natura stessa. Spesso siamo pieni del superfluo e vuoti dell’essenziale. Dimagrire nell’“Io” fa solo del bene, sia al corpo che all’anima. Ci aiuta molto a ritrovare noi stessi per essere così più leggeri quando ci accostiamo agli Altri diversi da noi, alla Comunità in cui viviamo e all’Altro che ci ama sempre e comunque.

Ecco, Silvia, nella Quaresima non trascuriamo la Prossimità, un riferimento che mi piace di più rispetto a quello della Carità. È la spinta alla Prossimità che ci mette nelle condizioni esistenziali e sociali per ripensare e riprogettare il cammino dell’umanità. Non per guardare passivamente le cose che non vanno, per cullarci nelle critiche sterili, ma per cambiare noi stessi, liberarci dalle angosce inutili e sposare le cause giuste di liberazione dalle guerre, dai disastri del cambiamento climatico, dalle tante ingiustizie che creano disuguaglianze e dalle violazioni dei diritti umani, sociali, civili e politici. La Quaresima è in sostanza conversione, è trasformazione, è condivisione, è fraternariato, è partecipazione. Nella Penitenza prevale il meno, nella Prossimità prevale il più. Nella Preghiera conteniamo entrambi.

Cara Silvia, spesso mi fai notare il mio continuo richiamo al numero tre: tre analisi, tre sfide, tre proposte, tre punti di riferimento… Mi condiziona un po’ il gioco della Trinità! Nella Quaresima abbiamo un riferimento forte al numero quaranta.

Nelle Sacre scritture, infatti, nella Quaresima si richiama ripetutamente il tempo dei quaranta giorni o anni: i quaranta giorni di permanenza di Gesù nel deserto, dopo che ha ricevuto il Battesimo e prima dell’avvio della sua predicazione; i quaranta anni di Esodo del popolo ebraico, dalla Schiavitù alla Terra Promessa.

I quaranta giorni fanno spesso capolino per altri momenti salienti del cammino di salvezza del popolo di Dio. Nell’Antico Testamento, sono citati i quaranta giorni del diluvio universale, quelli trascorsi da Mosè sul monte Sinai, il tempo che il profeta Elia ha impiegato per giungere il monte Oreb, così pure quello di preghiera che Dio concesse a Ninive prima di distruggerla o il periodo che il popolo di Israele trascorse nel deserto. Nel Nuovo Testamento, oltre i quaranta giorni che Gesù passò in penitenza nel deserto, viene citato anche il periodo che Cristo trascorse ad ammaestrare gli apostoli, tra la Resurrezione e l’Ascensione al Cielo.

Sai, Silvia, forse bastano quaranta minuti o quaranta secondi per aiutarci ad iniziare un cammino di fede e dare alla Quaresima lo spazio che merita, alla ricerca di Speranza e Liberazione.


Dialoghi, Lettera del 12 Febbraio

Perdono e consapevolezza

Cara Silvia,

Ti ringrazio di cuore per avermi più volte stimolato a riflettere sul significato e sul valore di oggi del perdono, nell’ottica del pensare, dire e vivere Dio. È una dimensione ostica e spigolosa. Spesso ne discutiamo con eccessi di superficialità. Chissà poi quante volte ci è stato chiesto di perdonare. Chissà quante volte lo abbiamo rifiutato.

Certo, viviamo un tempo molto travagliato di ingiustizie, di guerre, di disuguaglianze, di discriminazioni, dove il rancore, l’odio, la vendetta orientano malamente i sentimenti verso il perdono nei rapporti che stabiliamo quotidianamente. D’altra parte abbiamo testimonianze diffuse di donne e uomini che ci lasciano a bocca aperta per la capacità che hanno di impegnarsi con generosità verso gli altri perdonando anche i più tragici torti subiti. Su un piano ancora più alto, pensiamo a quello che è riuscito a fare Nelson Mandela.

Il perdono rimane una dimensione della vita e delle relazioni importantissima e delicatissima, che trattiamo purtroppo d’istinto o con poca consapevolezza.

Pensa poi quando il perdono viene chiamato in causa di fronte a delitti gravi ed efferati, addirittura di mafia o terrorismo.

Eh sì, cara Silvia, una certa confusione regna diffusamente sul perdono, una confusione che rischia di avvolgerci in una nebbia fino a spingerci a fare del perdono uno strano uso: a negarlo con stizza e ostinazione, a ignorarlo e nasconderlo alla nostra coscienza perché fa male dentro, oppure a dispensarlo a destra e manca con faciloneria.

Il perdono, mi è stato spiegato sin da bambino, grazie soprattutto alla saggezza popolare di mia nonna e alle severe lezioni del catechismo, non va mai escluso e anzi va offerto e accettato come un dono libero e gratuito. Successivamente, grazie alle sane letture e meditazioni nei ritiri spirituali, ho avuto modo di confrontarmi meglio sul valore del perdono, ma ti assicuro che anche nelle migliori letture, che ancora consiglio, su teologi della portata di Romano Guardini, Yves Congar o Gustavo Gutierrez, questo concetto fondamentale è rimasto sostanzialmente lo stesso.

Dobbiamo dirci onestamente che nel rapporto intenso, dialettico e continuo tra volontà di Dio e volontà degli uomini, quando siamo coinvolti direttamente, spesso ci va di mezzo la capacità di perdonare. Altre volte, nel dialogo con Dio, il perdono acquista una luce intensa e uno spessore esistenziale e sociale.

Silvia cara, crescendo e incespicando nei tanti sentieri della vita, abbiamo compreso che pure il perdono ha tante sfaccettature: è innanzitutto intimo ma anche sociale, coinvolge al tempo stesso la vittima e il carnefice, ha un aspetto religioso e profili etici, civili e penali…

Sì, Silvia, prima di ricercare la formula magica, dovremmo sottoporre il perdono ad una certa macerazione, come anticamente si faceva con il pesto nel mortaio: lasciarlo “riposare”, aggiungere qualcosa di “gustoso”, l’olio di qualità non deve mancare mai, farlo “amalgamare” bene nella nostra coscienza e dispensarlo o accettarlo solo dopo averlo sentito entrare nel cuore e nella mente. Deve essere in un certo senso un dono consapevole e profondo di sé verso l’altro. È infatti un gesto di intenso amore che comporta consapevolezza e prossimità. Facile a dirsi. Difficile a farsi!

Messa così, quante volte potremmo perdonare? Pensa un po’, nel Vangelo si cita una quantità immensa: non sette volte, ma addirittura settanta volte sette. Mamma mia, quante volte! Eh sì, un altro aspetto che Dio ci invita a prendere in considerazione ma che abbiamo enorme difficoltà a “digerire”.

Cara Silvia, anche chi lo riceve non deve giocare con il perdono. Diversamente non è un perdono accolto e prezioso. Ma è piuttosto un escamotage per continuare a fare i furbi e i cinici, in sostanza diventa una scelta spregevole. Nel Vangelo chi si comporta così, ad esempio non perdonando a sua volta, rischia di fare una brutta fine. Il perdono comporta una conversione, cioè un cambiamento radicale pure in chi lo riceve.

Tutto qui? E no, c’è ancora qualcosa da chiarire. Dicevamo che anche in una prospettiva di fede c’è comunque una dimensione sociale: il perdono a suo modo ha sempre una ricaduta pubblica. Pensa che i mafiosi si sono creati una loro versione perversa della fede e del perdono, persino dopo aver sottoposto a terribili torture le loro vittime, compreso quello che di orribile hanno riservato al piccolo Giuseppe Di Matteo.

Devoti e assassini. Religiosi e spietati. Si perdonano e autoassolvono come se niente fosse.

Si ignora tra l’altro che la dimensione sociale, oltre che penale, è parte integrante della dinamica del perdono: prima di chiederlo, bisogna curare la ferita inferta al prossimo e sottoporsi alla rigorosa valutazione della stessa comunità. Certo, la comunità deve essere pronta e preparata per non scadere nel perdonismo a basso costo o per evitare la gogna mediatica, ma deve essere giusta, saggia e rispettosa delle regole poste a fondamento della convivenza civile e democratica.

Eh sì, cara Silvia, il perdono è un valore regolativo dello stare insieme, semplice e complesso allo stesso tempo. Richiede tanti ingredienti per venire fuori “saporito” e capace di cambiare se stessi e il prossimo, la società e le sue istituzioni. Insomma, il perdono è un cammino fatto di tappe e di fatiche. Così diventa vero e bello da donare e ricevere!


Dialoghi, Lettera del 27 Gennaio

Memoria e Fede

Cara Silvia,

La Giornata della Memoria ci offre l’occasione per scavare dentro ognuno di noi e metterci tutti insieme di fronte alla necessità di non ripetere gli stessi tragici errori che si sono perpetrati contro gli ebrei.

Sono naturalmente tante le cose da ripensare per dar conto della Shoah e dello sterminio sistematico degli ebrei e delle altre diversità ritenute da cancellare: omosessuali, zingari, disabili, oppositori politici, etnie indesiderate, testimoni di Geova…

Tra le cose da ripensare, una in particolare mi preme sottolineare: quell’uso maledetto del motto “Gott mit uns”, “Dio è con noi”, in nome del quale si agiva e si agisce nello sterminio degli esseri umani.

La Storia purtroppo è piena dei tantissimi “Gott mit uns” che hanno legittimato violenze di ogni tipo, indicibili anche per il pensiero più immaginifico.

Eh sì, Silvia, nella stessa Chiesa se n’è fatto un uso massiccio per giustificare lotte intestine e verso pagani, musulmani e gli stessi ebrei.

C’è voluto il Concilio Vaticano II per avviare una svolta che ancora tra mille fatiche e contraddizioni è in cammino.

Con la dichiarazione della Chiesa sulle relazioni con le Religioni non Cristiane “Nostra Aetate”, si sono gettati finalmente i semi del superamento di qualunque uso del “Gott mit uns” almeno nei rapporti tra la fede cristiane e le altre religioni.

Sì, Silvia cara, ce n’è voluto per comprendere che Dio è Amore, Amore sempre aperto, da non possedere egoisticamente ma da vivere in libertà e semmai da donare gratuitamente nella Pace, nella Giustizia e nella Fraternità.

Questo amore di Dio ha nell’Altro, nel Tuo Prossimo, il completamento di Te stesso, come hanno saputo elaborare e descrivere ad esempio Hannah Arendt ed Emmanuel Lévinas. L’Altro non è un avversario da tenere lontano, l’Altro non è un nemico da abbattere, l’Altro non è un essere da odiare.

Così pure cara Silvia, l’Altra non è una donna da sopprimere se mi lascia, se vuole vivere diversamente da me. L’Altra non è una diversità da discriminare per la sua condizione di genere e di scelta sessuale.

Si, Silvia, l’Altra e l’Altro sono qualcosa in più di Me e di Te. Solo nella relazione liberante per entrambi c’è lo spazio vitale per maturare la propria personalità e per condividere insieme l’Amore di Dio e l’Amore Fraterno.

Certo, mi dirai che non è semplice guardare l’Altra o l’Altro come risorsa e non come un problema. Anzi, può sembrare una follia, soprattutto in tempi in cui facciamo fatica persino ad accogliere gli immigrati, figurarsi quelli che odiamo nella vita quotidiana o con cui siamo in conflitto ideale o di interesse. Per non parlare dell’Altra o dell’Altro che sono in guerra come attualmente accade in almeno 70 Paesi nel mondo.

Sì, Silvia, la Giornata della Memoria è anche Giornata dell’Impegno verso le tante mete di liberazione dalla violenza tra gli esseri umani, tra loro e gli altri esseri viventi e l’ambiente naturale.

C’è molto da ripensare e da riprogettare nel cammino dell’umanità. Ma stavolta il Dio che vorremmo che ci accompagnasse soffierà amore e ancora amore. Basta accoglierlo e lasciarlo entrare e potremo ricapitolare tutto in una dimensione incantevole e bellissima di luce e sapienza, bellezza e armonia.

Sì, Silvia, lasciamo entrare il Dio dell’Amore sino a farlo scendere nelle profondità della cosa più sacra che abbiamo, la coscienza, dove se vogliamo non possiamo fingere o nascondere a noi stessi le piccole e grandi violenze che ancora consumiamo contro di noi e contro gli altri.
Solo così il percorso diventa percorso di Liberazione dell’Altra, dell’Altro e del Noi fraterno.


Dialoghi, Lettera del 19 Gennaio

Fratel Biagio, l’emozione che si fa onda

Carissima Silvia,

I funerali di Fratel Biagio ci hanno consegnato un’altra corale emozione, in sintonia con il sentimento popolare, che si è espressa nei lunghi giorni della sua sofferenza.

Sì, la morte di Fratel Biagio ha suscitato un forte scossone emotivo nella comunità palermitana. Un’emozione che è diventata un’onda, che ha attraversato la Sicilia e il Paese intero, suscitando preghiere e meditazioni, oltre a curiosità e interesse intorno a questa figura mistica e sociale, anche in diverse parti del mondo

Un’onda emotiva intrisa di fede, di condivisione, di stima, di ammirazione per il suo stile di vita, per le sue scelte di prossimità a favore dei poveri e diseredati e per la promozione della Pace.

Un’onda sana e non distruttiva, di quelle da cui da bambini ci piaceva essere travolti, che ci facevano gioire con autenticità e semplicità.

Silvia, ti confesso che è un po’ la stessa sensazione che anch’io ho potuto provare tutte le volte che lo incontravo. Sì, avvertivo la sua onda di fede autentica e semplice, gioiosa e coinvolgente entrarmi dentro, toccarmi l’anima, scuotermi il cuore, sollecitare la mente, vibrare il corpo.

Sai, Silvia, le sue mani congiunte su cui era solito chinare il capo erano come ancore di barche sudate di pescatori, che gettava sulla vita del suo interlocutore, mentre i suoi occhi pieni di fervore brillavano come luci capaci di accendere gli occhi dell’altro, per guardare insieme senza veli i drammi e le speranze che ruotavano nella società e su cui dialogavamo con semplicità non priva di profondità.

Come sai, nella storia della Chiesa, soprattutto nei momenti di crisi, fanno spesso capolino i Santi figli del popolo, che aiutano a comprendere meglio la dimensione di fede e quella sequela di prossimità essenziale, “avevo fame, avevo sete..”, che la Chiesa, le altre Comunità religiose e la Comunità civile sono chiamate a imboccare: sequela che ritroviamo nello sconvolgente e attualissimo passo evangelico conosciuto come “Discorso della Montagna”.

Fratel Biagio si è fatto carico dei travagli attuali che l’umanità vive, senza frapporre pretese dottrinali, senza erigere nuove barriere, senza dividere i credenti dai non credenti e i cittadini dagli immigrati, senza marcare confini e rivendicare sovranità.

Con il Suo esempio e con l’opera di “Speranza e Carità”, ha scelto di farsi prossimo verso gli esclusi, i senza voce e rappresentanza, pensando solo alla loro dignità di essere meritevoli di attenzione amorevole, nella tutela dei loro diritti fondamentali.

Ha scelto di solcare con i sandali impolverati le strade dei territori, per portare la croce e annunciare una fede in Dio che ricerca la Pace e il Fraternariato tra gli esseri umani, che vuole che anche l’Ambiente sia amato e non violentato dalle nostre ingordigie personali o dai “peccati sociali ed economici”.

Sempre con il sorriso, sempre pieno di speranza, sempre pronto al dialogo e all’ascolto, anche quando si sottoponeva a digiuni devastanti, negli angoli più rinomati di Palermo o nelle spelonche sperdute sui monti, o quando vedeva chiudersi le porte da quel potere che adesso ne celebra le virtù.

Cara Silvia, speriamo che a riflettori spenti la prossimità di Fratel Biagio, che continua a camminare con la sua Comunità, non sia dispersa, che quella fede apra i cuori delle classi dirigenti.

Così accadrà in tanti giovani, uomini e donne che si lasceranno attraversare dal suo esempio, anche adesso che vive da “Angelo dei Poveri” in quel regno dei Cieli che inizia a prepararsi e muovere i suoi passi anche in questa nostra amata e bistrattata Terra.


Dialoghi, SS. Natale 2022

Silvia, il Natale è stupore, è meraviglia!

Scorrono i secoli, si succedono generazioni e generazioni, ma il Natale rimane essenzialmente stupore. Stupore per una nascita così straordinaria e paradossale per le logiche che guidano la storia delle donne e degli uomini.

Natale è meraviglia di un avvenimento che ha qualcosa che ci spalanca lo sguardo e il cuore verso l’amore, un amore strano che ci inquieta e che libera dentro pensieri e atteggiamenti così positivi che ci stupiscono e che dentro di noi fanno capolino raramente.

Sai Silvia, con il Natale, il Dio onnipotente, che tutto può, che è in grado sia di generare che distruggere in un solo batter di ciglia, sente un nuovo bisogno forte e inarrestabile: il bisogno di manifestarsi attraverso l’Amore facendosi uomo in tutto e per tutto, tranne nel peccato, in particolare quello dell’odio e della violenza.

Silvia, sappiamo bene che non è questo che il popolo eletto di allora si aspettava. Gli sconfitti, i desiderosi di giustizia, i promotori del riscatto dalla dominazione più potente che in quel tempo si conosceva, quella dell’impero romano, volevano finalmente essere riscattati diventando protagonisti di un nuovo potere, di un loro dominio, forse più giusto ma sempre caratterizzato da forza e potenza.

Che ne pensi Silvia, forse Dio comprende che la forza e la potenza che aveva usato per manifestare la sua presenza nella storia degli uomini e delle donne, alla fine ricalcava quella forza e potenza che portava sempre a guerre di ogni tipo. Una forza ed una potenza che generava soprusi, spesso indicibili, come succede anche oggi, nelle più di 70 guerre sparse per il mondo. O come succede nello sfruttamento del lavoro, nella pervasività delle mafie, nella continua aggressione all’ambiente, nella umiliazione degli immigrati, nelle disuguaglianze di reddito, di genere, generazionali, territoriali…

Sì, Silvia, Dio decide di cambiare passo. Sì, anche Dio probabilmente matura e si ravvede.

Sceglie un’altra e radicale modalità: si fa essere umano, e chiede alla storia dell’umanità un cammino di liberazione anche dalla forza e potenza, di qualunque forza e potenza anche religiosa, per vivere un fraternariato e un relazionesimo tra gli esseri umani e tra loro e l’ambiente ricco di amore, di amore liberante che sgorga dal cuore e, perché no, pure dell’intelligenza.

Così Dio manda il figlio. I genitori sono umili, figli del “popolo”. La mamma è una donna semplice ma straordinaria nel donare amore, il papà un artigiano che accetta di accompagnare il cammino della moglie e del figlio con un amore gratuito, inspiegabile alla cultura anche di oggi.

Il bambino nasce nel posto più povero ed escluso della vita.

Nasce fragile, nasce tenero, nasce con un bisogno travolgente di amore.

Silvia, alla fine lo stupore e la meraviglia del Natale scava Amore. Un Amore in cammino nei travagli di ieri, di oggi e di domani