➤ La relazione che segue fa parte dell’intervento che mi è stato richiesto di svolgere durante la sessione formativa dedicata alla crisi e ai percorsi di cura della politica, tenutasi il 24 luglio nell’ambito dell’edizione 2025 della Route Estiva promossa dal Movimento di Volontariato Italiano – Campania OdV. La Route, che si è svolta dal 20 al 26 luglio e che rientra nel progetto ‘Dalla Terra Promessa alla Terra Permessa’, ha avuto come cornice il suggestivo Convento Santa Maria della Libera a Cercemaggiore.

Si afferma da più parti che stiamo vivendo non solo un cambiamento radicale ma addirittura un passaggio d’epoca.
Drammi e speranze ci accompagnano. Molti avvertono più i drammi che le speranze, ma tutti hanno una cosa in comune: la constatazione che i drammi non hanno voce né rappresentanza nella politica democratica. E potremmo fare la stessa valutazione perfino per le speranze.
La politica democratica ha cessato da anni di essere risorsa ed è diventata il più grande problema delle società, soprattutto quelle occidentali:
- un po’ perché spinta in esilio, come è stato voluto in particolare dal neoliberismo imperante, cioè dai nuovi signori dell’economia finanziaria e tecnologica che controllano la rete, le comunicazioni e l’intelligenza artificiale;
- un po’ perché viene surclassata dai vorticosi cambiamenti dei paradigmi interpretativi, relazionali e tecnologici.
Ma in fondo bisogna riconoscere che la politica è molto ammalata, perché avariata al suo interno: nei suoi valori guida, nei linguaggi di appartenenza e militanza, nella rappresentanza di tutti i soggetti sociali, nella progettualità di promozione del cambiamento, nella organizzazione interna e nella selezione delle classi dirigenti, nella governance della società e delle istituzioni.
Siamo di fronte alla fine o alla trasformazione di un mito?
Una cosa è certa, senza la politica il mondo rischia di andare a rotoli:
– alle guerre che imperversano in forme sempre più violente e devastanti si risponde non, come dovremmo, con la riforma globale della governance dei conflitti, attraverso nuovi poteri e un nuovo ruolo dell’ONU e degli organismi di garanzia internazionali, ma con l’aumento a dismisura delle spese militari su scala nazionale;
– alle varie disuguaglianze si risponde non, come dovremmo, con una moderna redistribuzione del reddito, di saperi e responsabilità, ma con il dominio della società da parte di un terzo di essa, quello ricco e opulento; così avviene per le disuguaglianze di reddito a danno del ceto medio e basso, per le disuguaglianze di genere a danno delle donne, per le disuguaglianze generazionali a danno dei giovani, per le disuguaglianze territoriali a danno delle aree interne, per le disuguaglianze tecnologiche a danno dei Paesi poveri, per le disuguaglianze educative a danno di tutti;
– alla capillare diffusione delle dipendenze, sia da sostanze che da comportamento, si risponde non, come dovremmo, con approcci integrati di prevenzione, cura e riduzione del danno clinico, educativo e sociale e con strategie globali di contrasto del narcotraffico e prevenzione di salute e benessere emotivo e sociale ma con rassegnazione e scelte ipocrite, emergenziali, repressive e discriminatorie;
– al cambiamento climatico si risponde non, come dovremmo, con un’intelligente, giusta e innovativa politica green ma con un ritorno al ciclo industriale di rapina dell’ecosistema, delle terre rare, della forza lavoro a basso costo e priva dei diritti elementari;
– alla pervasività delle mafie, oramai globalizzate, si risponde al massimo con l’antimafia del “giorno dopo”, che rincorre con affanno il radicamento e le collusioni, e mai con quella del “giorno prima”, che potrebbe liberare la vita, l’economia e la società, perché capace di coniugare legalità di rango costituzionale e sviluppo di livello sostenibile;
– alle rivoluzionarie tecnologie, sia biologiche che artificiali, si risponde non, come dovremmo, con la ricerca responsabile e l’individuazione di modelli di governance condivisi e liberanti, ma con la delega in bianco ai proprietari dei colossi tecnologici.
Insomma, la crisi è profonda e complessa. Il cammino di cura è irto di ostacoli e tutto in salita.
Due sono le strade che si contendono il campo di fronte alla crisi strutturale della politica:
La prima strada. È quella attualmente più percorsa. Di fonte alla crisi delle Democrazie liberali, che in Europa sono connotate da un alto livello di welfare, si preferisce chiudersi a riccio, pensando di ritornare al passato, ai cosiddetti valori tradizionali della propria nazione, addirittura ricorrendo a forme di governo autoritario come sta avvenendo negli Stati Uniti d’America con Trump e in tanti Paesi europei con altre leadership. In questo caso si vuole una “politica etica”, che proponga una sola visione religiosa ed etica a primeggiare persino in forme coercitive sulla società, discriminando le diversità e le libertà civili e colpendo i più deboli, soprattutto se immigrati, sino a criminalizzare normativamente la stessa solidarietà.
La seconda strada. È quella che incontra tantissime difficoltà, alcune senza precedenti. Ci chiede di trasformare la crisi in risorsa e di aprirci per metterci in ricerca operosa dei nuovi valori da condividere, delle più avanzate progettualità sociali e ambientali e delle migliori governance della politica. Una strada irta di ostacoli e insidie ma l’unica che nella storia ha salvato più volte l’umanità dagli orrori, dalle ingiustizie e dalle guerre.
I paradigmi chiusura-apertura ci aiutano a comprendere meglio anche la crisi specifica della politica in Italia.
L’epicentro della nostra crisi politica dobbiamo collocarlo nel 1978, quando venne ucciso Aldo Moro. Egli aveva compreso tre cose, tutte legate all’idea dell’apertura, nel suo programma, per offrire al Paese una nuova fase politica per una democrazia matura e con partiti popolari riformati:
- Gli italiani dovevano vivere innanzitutto una nuova stagione dei doveri, da affiancare a quella impetuosa e positiva dei diritti.
- La DC, dopo trent’anni di governo ininterrotto del Paese, doveva aprirsi ad una fase di rigenerazione etica e sociale, collocandosi all’opposizione, e il PCI doveva responsabilizzarsi con la legittima scelta di essere finalmente forza propositiva di governo. Il passaggio intermedio del compromesso storico aveva in sé questa visione strategica di sbocco alla crisi lacerante della Prima Repubblica.
- Gli scenari internazionali dovevano essere guidati non più dalla chiusura nella cosiddetta guerra fredda tra i due blocchi coagulati intorno a USA e URSS, ma dall’apertura a una realtà geopolitica multipolare, che assegnava un nuovo protagonismo all’Europa e, nel Mediterraneo, all’Italia.
L’eliminazione di Aldo Moro ha indotto la politica a chiudersi in una logica autoreferenziale, che ha trascinato con sé la nostra democrazia e, con essa, la politica dei partiti storici: tangentopoli e le stragi del 1992-1993 arriveranno quando il corpo vivo della democrazia italiana era già debilitato ed esposto a qualsiasi fragilità, a cominciare da quelle più corrosive, come la corruzione e le collusioni mafiose.
La cosiddetta seconda Repubblica non ha aperto, come si sperava, ad una fase di rigenerazione democratica, ma si è richiusa ancora una volta in uno scontro politico privo di respiro progettuale, affidandosi alla leadership dell’“IO” e mandando in soffitta la leadership del “NOI”. È subentrata così una fase decadente, in cui la Repubblica si è trovata esposta ad un concentrato di errori, occasioni mancate e di ulteriore degrado della politica.
Da dove ripartire? Dobbiamo ripartire dall’Etica della Politica, con una prospettiva di apertura, e non dalla politica etica, che è sintomo di chiusura.
L’Etica della Politica è un sentire condiviso e partecipato, che avverte nella propria coscienza la necessità di curare la politica anziché condannarla. La politica va quindi riabilitata e non scacciata dalla vita pubblica. Va rigenerata e non abbandonata a sé stessa. Va aperta criticamente alle sfide drammatiche presenti nella società attraverso la ricerca e la condivisione di nuovi valori relazionali e di fraternità, di sviluppo sostenibile socialmente e ambientalmente, di nuovi linguaggi non violenti e motivanti, di forme decisionali democratiche in grado di guidare e non subire il cambiamento, di forme partecipative dal basso che rendono attivi i cittadini e le comunità.
Dove apprendere il senso della politica aperta, dell’etica della politica e rigenerare alcune sue abilità e funzioni?
Nel Sociale! È nel sociale che la politica può aprirsi e curare i suoi mali, acquisire forza e coraggio, dinamicità e fiducia, per mettersi così al centro della governance territoriale e globale.
Possiamo trarre alcuni esempi dell’approccio fecondo della scelta dell’apertura per curare la politica direttamente dalla storia:
- Nella Chiesa, ad esempio. Dopo la fine del potere temporale, durato secoli e secoli, con l’Unità d’Italia si confrontarono due opposti approcci: quello della chiusura nella tradizione, alla ricerca della cristianità perduta, e quello dell’apertura, alla ricerca di nuovi orizzonti del pensare e vivere Dio. Non senza travagli e contraddizioni, prevalse la seconda, con l’avvento di Leone XIII, che con la Rerum Novarum aprì la Chiesa alla dottrina sociale e al confronto con i drammi devastanti e le speranze altrettanto profonde della prima Rivoluzione industriale.
- Anche più di recente abbiamo assistito all’alternarsi dei due approcci. Con il papato di Benedetto XVI, abbiamo avuto una tendenza alla chiusura, mentre con Papa Francesco si è affermato senz’altro un approccio all’apertura, basti pensare alle due encicliche “Laudato si’” e “Fratelli tutti”. Papa Leone XIV, a scanso di equivoci, ha scelto già nel suo nome l’apertura alla questione sociale del nostro tempo.
La scelta dell’apertura con piglio progettuale, relazionale, condiviso e partecipato, piuttosto che la chiusura nel passato, vale per tutti i soggetti sociali, compreso il volontariato, e a maggior ragione oggi per la politica.
Altri due esempi storici ci aiutano in tal senso:
Il primo. Siamo nel 1941: mentre il nazifascimo imperava e devastava l’Europa, nella piccola isola di Ventotene, in un carcere molto severo, gli antifascisti Spinelli, Rossi e Colorno non si fecero assalire dallo scoraggiamento, dal riflusso privatistico, dalla sfiducia nell’agire politico, ma al contrario seppero gettare le basi, con il Manifesto Federalista dell’Europa, che adesso dobbiamo saper rigenerare, degli Stati Uniti d’Europa, che siamo chiamati a costruire e finalmente realizzare.
Il secondo. Siamo nel 1942, a Londra, sotto i bombardamenti che l’hanno rasa al suolo. Oltre al “fare concreto” necessario e vitale per sopravvivere, un intellettuale si dedica – diremmo oggi – “all’essere trasformativo”, gettando le basi della più grande innovazione che caratterizzerà la peculiarità europea nel mondo: lo Stato Sociale. È una sfida tuttora aperta quella per rigenerare il nuovo welfare, che deve essere integrato tra welfare state, welfare society e welfare community, che è a noi tanto caro.
In sintesi, è nell’apertura nel sociale che la politica democratica cura sé stessa, così può guarire dai suoi gravi mali e proiettarsi ad affrontare le sfide più cariche di speranza e di drammaticità. Ecco cosa significa dare valore, corposità, concretezza all’Etica della Politica, perché la Politica rigenerata si metta alla ricerca fattiva di “cieli e terre nuove”.
In conclusione
Riassumiamo la riflessione: in questo momento storico così travagliato, la politica ha bisogno di una cura rigorosa e non di sdegno e rigetto. La cura si deve misurare con un approccio culturale teso all’apertura progressiva e non alla chiusura regressiva. L’apertura si gioca soprattutto nel sociale con un percorso rigoroso di rigenerazione.
La rigenerazione politica ha un bisogno vitale di:
- Rigenerazione motivazionale in grado di ridare alla soggettività energie passionali e di appartenenza che siano non violente e alle relazioni interpersonali e sociali qualità nei valori, nei linguaggi e nelle progettualità condivise. “L’intelligenza emotiva” potrebbe dare un buon supporto alla rigenerazione della militanza politica dei partiti e dei movimenti e all’impegno della cittadinanza attiva nel volontariato e nella società civile.
- Rigenerazione del welfare, nel senso di sostenere le politiche di integrazione tra quello che spetta inderogabilmente allo Stato, quello che si può affidare correttamente al privato sociale e soprattutto quello che riguarda il più avanzato e innovativo welfare community.
- Rigenerazione urbana e delle aree interne, perché i territori devono sperimentare e vivere altre dimensioni che non siano quelle di esclusione nelle città e di abbandono nelle zone rurali e di montagna. La rigenerazione sociale e ambientale ben programmata dalla politica è in grado di rivitalizzare la vita quotidiana e dare un senso relazionale e aperto alla comunità locale.
- Rigenerazione dell’economia con una politica capace di promuovere le varie linee dello sviluppo sostenibile socialmente e ambientalmente senza far pagare la transizione green e digitale alle fasce deboli e del ceto medio che, al contrario, devono diventare la leva del cambiamento economico e sociale dello sviluppo sostenibile.
- Rigenerazione della governance globale, libera dalle guerre e conflitti, dalle disuguaglianze e povertà, dalle discriminazioni ed esclusioni attraverso una politica internazionale orientata al rafforzamento del ruolo dell’ONU e degli organismi di regolazione dei vari conflitti e delle dinamiche sanitarie, finanziarie, sociali che abbiano ricadute globali.
- Rigenerazione dell’Europa non più nel suo fallimentare assetto ibrido e “Confederale” ma nel più evoluto e necessario modello “Federale”, meglio conosciuto come evoluzione progressiva verso gli Stati Uniti d’Europa.
- Rigenerazione dei partiti liberandoli dalle scorciatoie della leadership dell’”Io” comunicativo e populista per abbracciare piuttosto la leadership del “Noi” motivante, formato, popolare, radicato, organizzato, progettuale.